Roma
Roma non ha petrolio ma cervelli. Un piano Marshall per salvarla. La proposta
L'ex numero uno della Camera di Commercio di Roma Mondello esce allo scoperto
Un “piano Marshall” per salvare Roma, devastata dalla crisi e dalla politica. Inchiodata da un assetto istituzionale che non le permette di essere davvero “Capitale”. Altro che “ladrona”, negli ultimi decenni Roma è stata “scippata”.
A riflettere sul futuro è Andrea Mondello, ex storico presidente della Camera di Commercio di Roma nell'era d'oro, tra i principali artefici del “Modello Roma”. La sua “ricetta” espressa durante un intervento alla Conferenza programmatica di Confimprese che si è svolta al Tempio di Adriano, l'ha consegnata alla rete con un lungo post sul suo profilo facebook.
In questi anni tante persone mi hanno chiesto di parlare di Roma, di dire cosa penso delle condizioni in cui si trova. Mi hanno chiesto di valutare le ultime amministrazioni comunali. Ho sempre rinunciato agli insopportabili lamenti, ai paragoni, ai giudizi affrettati. Ho invece cercato di ragionare con l'obiettivo di migliorare la mia città e la qualità della vita dei romani. Ho rifiutato uno sguardo parziale e mi sono sforzato di trovare idee che potessero rilanciare la Capitale. Anche rispondendo ai tanti inviti che mi sono stati rivolti, pubblico di seguito il mio intervento, scrive Mondello.
Perdita di appeal di Roma
La città di Roma ha subito con durezza l’impatto della crisi economica, che ne ha mutato profondamente il profilo sociale ed economico. La nostra è la prima provincia in Italia per numero di imprese: oltre 488mila (488.902 imprese registrate al 30 giugno 2017). Imprese che, dall’inizio della crisi, sono aumentate di oltre 65mila unità. Questo dato, a una prima lettura, ha una valenza positiva poiché dimostra che i romani hanno saputo reagire alla difficile congiuntura mettendosi in gioco in prima persona con una propria attività imprenditoriale.
D’altra parte, la dimensione media delle imprese nel periodo della crisi è progressivamente diminuita e, di pari passo, abbiamo registrato un costante esodo delle grandi aziende, in un territorio che già di per sé conta una bassa presenza di big player che possono svolgere un effetto traino sul resto del sistema imprenditoriale. Questo fenomeno ci preoccupa fortemente perché sono le grandi imprese a fare ingenti investimenti in ricerca e innovazione – fondamentali per realizzare prodotti ad alto valore aggiunto, competitivi con le produzioni low cost dei Paesi emergenti – di cui anche le piccole imprese possono beneficiare.
La presenza delle grandi imprese è essenziale anche per consentire alle piccole imprese di operare in sinergia nel mercato globale, superando i propri limiti dimensionali.
D’altra parte, sul nostro territorio registriamo un grande fermento di aziende innovative: 667 a Roma e provincia al 18.09.2017 (di cui 621 nel comune di Roma), cresciute nell’ultimo anno del 20%. Dati che fanno di Roma la seconda provincia dopo Milano per start-up innovative, con l’8,5% del totale nazionale.
La caratteristica delle imprese innovative è quella di operare in territori in cui l’elevata capacità creativa e culturale delle persone che vi operano riesce a sopperire alla mancanza di materie prime.
Tanti anni fa, in una trasmissione televisiva, affermai: “Roma non ha il petrolio ma in compenso ha le intelligenze”: ciò è vero, ed è anche merito delle università e dei centri di ricerca.
La nostra città, infatti, con 16 università, oltre 220mila studenti universitari, 40mila laureati l’anno, la presenza dei più importanti centri di ricerca pubblica del Paese, è un grande polo di eccellenza dell’università e della ricerca.
Tuttavia, non possiamo non notare come, a fronte del loro numero consistente, le start-up funzionino molto bene nell’early-stage ma incontrino forti difficoltà nel consolidare il proprio percorso di crescita, principalmente per l’assenza di venture capital in grado di far diventare grande una piccola impresa.
La “polverizzazione delle imprese” in atto nella nostra città è preoccupante perché queste imprese producono un basso valore aggiunto.
I dati lo dimostrano: tra il 2007 e il 2016 non solo abbiamo 65mila imprese in più, ma anche 190mila occupati in più; il Valore Aggiunto procapite è però in calo del 10,5% (tra il 2007 e il 2014).
La bassa qualificazione del sistema economico locale si riflette sulla bassa capacità competitiva della nostra città nei confronti delle altre grandi capitali europee.
Roma, infatti, nonostante le sue enormi potenzialità, non è in grado di competere sul piano internazionale con le altre realtà territoriali del suo rango e si trova in posizione marginale rispetto al contesto delle grandi metropoli europee: Londra, Parigi, Berlino. Città dove c’è una concentrazione di attività produttive e direzionali del tutto preminente.
Roma è in posizione periferica anche rispetto alle aree forti del Paese rappresentate dalla dorsale padana.
Roma penalizzata dalla politica
La perdita di appeal della nostra città chiama direttamente in causa le forze politiche, al di là della loro connotazione ideologica, e affonda le sue radici negli ultimi decenni della storia della città.
Non possiamo nasconderci, infatti, che i problemi di Roma sono gli stessi da moltissimi anni a questa parte. Si può affermare che in precedenza le cose andavano benissimo, ma la realtà è diversa.
Gli anni precedenti la crisi e coincidenti con la mia Presidenza alla Camera di Commercio di Roma, sono stati contraddistinti da una buona ripresa.
Non ho, tuttavia, timore di affermare che si è trattato di una fortunata congiuntura, in cui persone di forte carisma e capacità hanno saputo collaborare per un grande progetto, nonostante la difficoltà delle regole esistenti, le sovrapposizioni tra poteri e la prevalenza di una cultura dei veti, che avrebbe ripreso vigore una volta scomparsa questa congiuntura favorevole economicamente e di uomini di buona volontà.
Ciò che è indubbio è che Roma è stata da sempre penalizzata, in termini di investimenti, dalle scelte della politica nazionale.
Chi ha governato il Paese da Roma ha spesso dimenticato che la nostra città non è solo la capitale del Paese. È il simbolo dell’unità nazionale. È la capitale della cristianità. È, anche e soprattutto, la più grande area metropolitana italiana. Il Comune di Roma ha la stessa estensione territoriale dei comuni di Milano, Genova, Palermo, Bologna, Torino, Napoli, Bari e Firenze messi assieme.
A livello europeo, il Comune di Roma ha la stessa estensione territoriale di Bruxelles, Berlino, Parigi e Stoccolma messe assieme.
Nonostante ciò, il Governo ha sempre scelto di penalizzare la propria Capitale: Roma riceve, per ogni suo cittadino, dallo Stato meno fondi, ovviamente pro capite, tra le 10 principali città italiane.
Un problema già da me evidenziato nel corso dell’Assemblea UIR del 1988.
In Italia c’è sempre stata l’idea che Roma è ladrona. Roma è invece una città scippata.
Già nell’epoca postunitaria i grandi capitali erano nel Meridione d’Italia e furono in qualche maniera attratti verso le grandi industrie del Nord dal sistema bancario; un tema che ricorda la recente questione dello spostamento delle banche.
A questo riguardo, ricordo che, anni fa, a un giornalista de Il Sole 24 Ore preoccupato per il fatto che a Roma non c’era più una banca autoctona, se così si può dire, io risposi che non aveva alcuna importanza perché ciò che era davvero importante non era la sede sociale della banca ma come la banca operava sul nostro territorio.
A distanza di anni mi sono accorto di essere in errore e di essere stato più utopico che realista: è difficile pensare che una realtà territoriale di 4 milioni di abitanti, che ha bisogno di energie e di capitali per evolversi, possa essere su una direttrice di sviluppo senza una banca in loco in grado da agire da traino.
Un Piano Marshall per Roma
Ritengo dunque, fondamentale, che tutte le forze politiche, a livello non solo locale ma nazionale, comprendano che per Roma occorre un grande piano di investimenti infrastrutturali in grado di ripristinare condizioni di normalità per la città.
Io lo definisco “un secondo piano Marshall”: a differenza del primo, dovrà essere specificamente rivolto a Roma.
La necessità di attuare un vasto piano di investimenti per Roma ha occupato a lungo il dibattito politico, ma alle parole non sono mai seguiti i fatti. Ne è un esempio il Piano Tonioli all’epoca del Governo Craxi.
Ricordo, anche, il super-piano per le infrastrutture a Roma presentato dall’allora Primo Ministro, On. Giulio Andreotti, all’Unione Industriali nel 1989. Di quei piani si è molto parlato, ma non si è poi realizzato nulla.
In questo senso, l’iniziativa di rilancio della Capitale avviata dal Ministro Calenda è senz’altro lodevole e ha il merito di rimettere al centro del dibattito politico la “questione romana”: un tema che affonda le sue radici nella storia dell’Italia post-unitaria e che politici come Quintino Sella o intellettuali come Luigi Firpo hanno utilizzato, forse inavvertitamente, per fermare la crescita e lo sviluppo della capitale.
Il mio auspicio è che l’iniziativa di Calenda, non rimanga solo uno dei tanti nobili propositi della politica -soprattutto in periodi pre-elettorali- ma trovi realmente concreta attuazione.
Perché o la classe politica si rende conto che su Roma deve fare degli investimenti epocali di tipo, per esempio, infrastrutturale, oppure il problema rimarrà sempre aperto e continuerà il declino della città, un dramma con valenza non solo locale, ma nazionale.
Una capitale povera, inefficiente e con una alta presenza della malavita, come il caso di mafia capitale dimostra, porterebbe non solo la nostra città, ma anche l’intero Paese verso una china irreversibile.
Questione istituzionale
Ciò che mi preme ora sottolineare è che il “Piano Marshall per Roma” potrà avere successo solo dotando la nostra città di un adeguato assetto istituzionale.
Posi per la prima volta la questione del governo della Capitale in occasione dell’Assemblea UIR del 1988.
Dissi, allora, che le cause non andavano cercate “nei singoli”; non si trattava “delle persone”, ma dell’inadeguatezza degli assetti istituzionali rispetto alle esigenze di governo del territorio. Ponevo, quindi, un problema di governo delle grandi metropoli, del governo della Capitale.
Quel concetto è valido oggi come allora: non serve a nulla investire inuna città come Roma se non ci sono delle regole chiare che consentano, a chi comanda nella città, di governare questo sviluppo.
Un tema che, nei miei 18 anni di presidenza alla Camera di Commercio di Roma, ho ripreso più volte. Quella che chiamavo la “questione istituzionale” è quella che in altri termini portò a dire, già dal 1887, immediatamente dopo l’Unità d’Italia, che per Roma occorresse una legge speciale.
Roma deve necessariamente essere dotata di regole particolari, in considerazione delle sue peculiarità di: Capitale dello Stato italiano con, al suo interno, uno Stato estero; sede di decine di organismi internazionali; terza città al mondo per rappresentanze ONU dopo New York e Ginevra.
Tali caratteristiche le impongono di affrontare una serie di problemi e di costi. E’ evidente che Roma non può essere governata nello stesso modo in cui è governata qualsiasi altra realtà urbana italiana.
La questione di dotare Roma di una legge speciale fu toccata persino dall’allora Presidente del Consiglio Benito Mussolini, il quale, nonostante non avesse grandi problemi di consenso – considerando che in quella fase la democrazia era stata messa piuttosto in secondo piano – riteneva fosse difficile governare Roma.
Con il Regio decreto-legge 28/10/1925 n. 1949 fu dunque istituito il Governatorato di Roma: a mio avviso, un atto non del tutto sbagliato. Basti pensare che Alberto Ronchey, uomo di straordinaria intelligenza, grande esperto di cultura e di relazioni con l’estero, alla fine degli anni ’80, quando gli venne proposta la candidatura a Sindaco di Roma, rispose: “A me va bene, ma pongo due condizioni: avere gli stessi poteri del Governatore di Roma e poter restare in carica per 10 anni”.
Dopo la Seconda Guerra Mondiale, questo tema fu poi riaffrontato dalla Commissione Petrilli, che fece un buon lavoro, per passare poi alla cosiddetta “Commissione Moro”, che lo studiò per alcuni anni senza però produrre alcun risultato concreto.
A mio avviso, l’unico modello valido è l’istituzione della Regione Metropolitana di Roma, da me proposto a partire dalla fine degli anni ottanta.
Una soluzione che annovera tra i suoi sostenitori un ampio schieramento culturale e politico: ricordo, tra gli altri, gli interventi a favore di Augusto Barbera, Walter Tocci, Giuliano Urbani: contributi scientifici che risalgono ai primi anni ’90, all’indomani della costituzione in Belgio della Regione metropolitana di Bruxelles avvenuta nel 1989. Un’innovazione istituzionale che, in Italia, arricchì enormemente il dibattito sulla riforma del governo locale.
La Regione metropolitana di Roma segna l’evoluzione naturale e logica della città metropolitana. Roma regione metropolitana è un ente titolare delle funzioni strategiche e dei poteri tipici delle amministrazioni regionali e delle città metropolitane, territorialmente coincidente con l’attuale provincia di Roma. Un modello amministrativo forte ed essenziale, basato su solo due livelli di governo, la regione e i comuni, senza duplicazioni di competenze, con poteri ampi, risorse adeguate e che consente scelte politico-amministrative tempestive.
Un modello mutuato da altre grandi città europee, Bruxelles e Berlino, capitali di paesi radicalmente regionalisti e federalisti. Città complesse, dove tale modello si è rilevato all’altezza dei problemi e capace di governare un’intensa fase di sviluppo.
Per questo, nel 2001 all’epoca della mia Presidenza alla Camera di Commercio, affidammo a una grande istituzione scientifica internazionale, la London School of Economics, uno studio volto a verificare “scientificamente” la validità della nostra proposta anche attraverso il confronto con altre città quali Parigi, Londra e Washington D.C..
Attraverso lo studio, rilevammo che Berlino era la situazione ideale cui ispirarsi per il governo di Roma. Berlino è Land, una città/regione con caratteristiche particolari in cui il sindaco - chiamato senatore - di fatto riunisce tutti i poteri delle autorità sulla città di Berlino, avendo la capacità politica di reperire fondi in maniera consistente per realizzare imponenti piani di sviluppo per la sua città.
Parigi e Londra hanno una forma di governo istituzionale analoga.
La mia proposta ottenne un consenso bipartisan, ma non seguirono iniziative concrete. Ho lavorato tanti anni per portare avanti questa tesi e nessuno mi ha mai detto che era sbagliata, ma, allo stesso tempo, non ho mai trovato nessuno che l’abbia poi applicata in pratica. L’unica eccezione fu l’allora Presidente della Regione Lazio, Francesco Storace, ma il suo gesto fu interpretato come l’ingerenza di una forza politica nei confronti di un’altra.
Vorrei concludere questo ragionamento sottolineando che Roma, come diceva Andreotti, accanto ai finanziamenti ha bisogno anche di infrastrutture straordinarie. Per dare un parametro, pensiamo solo che a Roma abbiamo 60 km scarsi di metropolitana; a Madrid, invece, nel 2001 sono iniziati i lavori per 350 chilometri aggiuntivi di metropolitana, cioè una volta e mezzo tutte le metropolitane presenti sul nostro territorio nazionale.
Per realizzare tali infrastrutture, Roma ha bisogno di molte risorse; ma, soprattutto, ha bisogno di una forza unitaria che, a prescindere dalla sua connotazione politica, sia in grado di governare la città. Se non c’è, da parte della classe politica, la volontà di risolvere i problemi, i problemi rimangono insoluti.
A mio avviso non è solo un problema di finanziamenti: è anche una questione di regole e le regole sono indispensabili.