Roma

Roma, per la Capitale pronto il Recovery flop. I buchi del piano investimenti

Il senatore Francesco Giro spiega i buchi neri nel Piano di investimenti europei per Roma Capitale.

di Francesco Giro

Ora che le risorse del Recovery Fund per l’Italia sono state finalizzate e distribuite dal governo possiamo purtroppo anche dire che per la Capitale sarà un Recovery flop. Nonostante un ampio schieramento politico trasversale e bipartisan abbia in questi mesi speso le proprie energie in Parlamento, ma anche sui media e nei social, per riconoscere a Roma le funzioni amministrative e le relative risorse finanziarie, anche questa irripetibile opportunità dei nuovi fondi europei è stata clamorosamente mancata.

Si tratta della terza grave sconfitta “Capitale”, dopo il no di Monti alla candidatura olimpica Roma 2020, al gran rifiuto della Raggi alla nuova sfida di Roma 2024 e oggi con il Recovery flop per la Capitale. Eppure è dal mese di luglio di un anno fa, il 2020, che verrà ricordato da tutti come l’anno della pandemia, che si fa un gran parlare del Recovery Plan. Un binomio ormai entrato nelle case degli italiani come nel secondo Dopoguerra lo fu il citatissimo Piano Marshall, spesso usato dai nostri politici e commentatori della politica come lo slogan un po’ retorico della ripartenza e del riscatto economico, ieri come oggi. In realtà ancora oggi a quasi un anno di distanza le incertezze sul campo sono ancora tante e con esse la paura di vivere nella classica bolla di sapone.

Come scrive Mario Ajello su il Messaggero: “Ai cittadini ora altro non interessa se non dove verranno destinati i 222 miliardi di euro a disposizione e soprattutto come verranno messi sul terreno e fatti materialmente fruttare al servizio del miglioramento delle nostre condizioni di vita. In che modo, in quale misura, a partire da quando e in quanto tempo e attraverso quali mani e quali chiare e visibili responsabilità i sostegni UE finiranno per incidere sui vari bisogni”.

Dunque il Piano e la capacità che avrà di incidere sulla vita reale delle persone, ma anche sulla visione di un Paese più moderno ed evoluto. E infatti Enrico Fubini sul Corriere della Sera ammonisce: “La Commissione europea non regala denaro, lo mette a disposizione solo per progetti legati a riforme che impediscano al Paese di vanificare la spesa in un fuoco di paglia. Dunque il governo deve decidere se punta a rivedere il sistema della giustizia e dell'amministrazione nel segno della responsabilità delle catene di comando, della competenza e del merito, oppure pensa solo a 16mila assunzioni a tempo e ai voti che ne possono derivare. 

Il Governo deve anche scegliere fra nuovi percorsi credibili di formazione e reinserimento dei disoccupati - tenendo conto della realtà del mercato - e la difesa ad oltranza dell’attuale sistema pubblico fra decrepiti centri dell’impiego regionali e navigator in scadenza di contratto e reddito di cittadinanza. Deve poi stabilire quale sia la strategia energetica nazionale di un’economia del ventunesimo secolo: la scalata al cielo di un investimento colossale nell’idrogeno verde, il più pulito in assoluto ma anche caro il triplo o il quadruplo dell’idrogeno blu e dunque senza mercato per gli anni a venire, oppure un dosaggio equilibrato fra sostenibilità dell’ambiente e del sistema produttivo.

Infine la stretta sul Recovery plan lascia ancora senza risposta la domanda più grande, quella della struttura che avrà il potere e la responsabilità di gestirlo”. Insomma un Piano e la visione che dovrà avere per la rinascita di un Paese che non cresce da decenni. Ma ora citiamo qualche numero di un Recovery plan che inevitabilmente scopriremo nel suo dettaglio solo nei mesi che verranno. Le pagine del Piano italiano sono 170, meno di quello francese (290), più di quello spagnolo (55) e di quello portoghese (66). I tedeschi i meno prolissi (49) ma i più precisi nel definire i cluster di progetto, gli obiettivi e soprattutto i risultati che si otterranno in termini economici e occupazionali per ogni singola iniziativa finanziata. È proprio questo il criterio base del piano straordinario di finanziamenti varato dalla Commissione europea e approvato dopo un’estenuante trattativa dal Consiglio europeo dei premier Ue: accanto al cronoprogramma, la capacità di indicarne la concreta ricaduta sociale ed economica. Fabrizio Barca, già ministro per la Coesione territoriale, sulla valutazione dei “risultati attesi” ha parecchio insistito, ponendosi delle domande: “Cosa produce l’aiuto ricevuto? L’impresa è cresciuta? Il benessere sociale è stato incrementato? Qual è stato il beneficio nella formazione del capitale umano? Le risorse ambientali subiscono un loro riequilibrio? E poi il rischio di presentare in Europa una lista della spesa pubblica, con 600 progetti iniziali, un primo assemblaggio disordinato saltato fuori dai cassetti talvolta polverosissimi dei ministeri (dalle molitura delle olive alle isole green). E il governo ne ha scelti 47. Una bella e opportuna selezione. Manca tuttavia il coraggio di una visione. Per fare solo un esempio, mentre la Germania approfitta dei nuovi soldi e opera una scelta netta per l’idrogeno verde, noi restiamo ancora in bilico fra idrogeno verde, idrogeno blu, fonti rinnovabili, reti intelligenti e sistemi di accumulo, che pure sono indispensabili per lo sviluppo del sistema. Un secondo esempio è l’incremento per il super bonus per le ristrutturazioni edilizie, che già in manovra di bilancio arriva a 10 miliardi, e un mancato potenziamento del fondo per la riqualificazione delle aree urbane - in cui gli edifici sono inseriti - fermo a 3,5 miliardi. C’è anche da dire che le risorse disponibili sono enormi e forse la nostra amministrazione pubblica era abituata da molti anni a tagliare e ora stenta ad interpretare la inedita missione di programmare e spendere al meglio, con una logica di progetto ciò che sta arrivando in quantità così cospicua. Le missioni che il Recovery Italia si è dato sono essenzialmente 6:

1) Digitalizzazione, innovazione, competitività e cultura per 46,19 miliardi complessivi distribuiti secondo i tre assi della Pubblica Amministrazione (11,45 mld) , del sistema produttivo (26,73 mld) e del turismo-cultura (8 mld); 

2) Rivoluzione verde e transizione ecologica per 68,90 miliardi secondo i quattro assi dell’impresa verde ed economia circolare (6,30 mld), della transizione energetica e mobilità locale sostenibile (18,22 mld), dell’efficienza energetica e riqualificazione degli edifici (29,35 mld), della tutela e valorizzazione del territorio e della risorsa idrica (15,03 mld);

3) Infrastrutture per una mobilità sostenibile per 31,98 mld secondo i due assi dell’alta velocità ferroviaria e della manutenzione stradale (28,30 mld) e dell’ Intermodalità e logistica integrata (3,68 mld); 

4) Istruzione e ricerca per 28,49 miliardi secondo i due assi del potenziamento delle competenze e diritto allo studio e della transizione dalla ricerca all’impresa; 

5) Inclusione e coesione per 27,62 miliardi secondo i tre assi delle politiche del lavoro (12,62 mld), delle infrastrutture sociali, famiglie, comunità, terzo settore (10,83 mld), degli interventi speciali di coesione territoriale (4,18 mld); 

6) Salute per 19,72 miliardi secondo i due assi dell’assistenza di prossimità e telemedicina (7,90 mld) e dell’innovazione, ricerca e digitalizzazione dell’assistenza sanitaria (11,82 mld).     

Questa l'architettura del Piano generale. Ma tornando a Roma Capitale manca, come abbiamo detto, un’accurata valutazione del rilancio della Capitale secondo gli ambiti stessi (cluster di progetto) ai quali l’Europa ci ha vincolato, della transizione ecologica, della digitalizzazione, dell’efficientamento energetico e della rigenerazione urbana.

Per una Capitale così degradata e con ampie zone di arretratezza logistica, infrastrutturale, digitale e nella pianificazione territoriale e urbanistica sarebbe stata un’opportunità irripetibile. Siamo dunque di fronte ad un’occasione mancata clamorosa. Eppure questo è accaduto e accadrà. Se penso che la sindaca Raggi aveva presentato pochi mesi fa addirittura 159 progetti suddivisi in 5 ambiti per complessivi 25 miliardi, allora più che di occasione mancata potremmo parlare di un clamoroso schiaffo alla Capitale proprio nell’anno che in cui le istituzioni avrebbero dovuto celebrare i suoi primi 150 anni di vita. Proprio per questo nel Recovery Plan andava inserito un capitolo ‘Roma 1871-2021 Capitale d’Italia’. E invece ciò che troviamo è una lista disorganizzata di misure, seppure tutte benvenute perché qualcosa è sempre meglio del nulla. E sono misure appese ad una data simbolo, il 2025 anno del grande Giubileo, scelta nobile sulla carta ma opinabile nel merito perché si rischia in questo modo di derubricare un piano strategico nel progetto - seppure ambizioso - per un evento. E ciò nonostante in Parlamento si sia lavorato molto anche dietro la spinta della Regione Lazio guidata da Zingaretti che evidentemente non è riuscito a far pesare e contare il suo ruolo di segretario politico del Pd e di azionista del governo Conte bis. Spulciando qua e là nel Recovery Plan saltano fuori comunque 10 miliardi per Roma suddivisi essenzialmente in due asset strategici: 1) infrastrutture e 2) tutela e valorizzazione del patrimonio culturale. 

Per le infrastrutture il completamento dell’anello ferroviario; fondi per la linea C e D della metropolitana; collegamento Alta Velocità con l’aeroporto di Fiumicino; interventi per infrastrutture e rigenerazioni urbane in vista del Giubileo 2025. 

Per la cultura un progetto di 150 milioni per il recupero di itinerari e percorsi storici, come la via Francigena, dei pellegrini in vista del Giubileo 2025; un fondo di 500 milioni per la tutela e la valorizzazione di alcuni siti di natura archeologica e di interesse religioso, sepolcri, catacombe, basiliche, attraverso una riqualificazione delle aree verdi e delle strutture architettoniche e la realizzazione di sistemi tramite App per la realtà aumentata; un finanziamento di 300 milioni per gli Studios di Cinecittà da spendere per la digitalizzazione degli archivi, nuove tecnologie e la costruzione di 6 nuovi teatri di posa e il recupero di altri quattro già esistenti, entro il 2026.

In tutto per la Capitale dovrebbero essere disponibili 10 miliardi. Una cifra significativa ma slegata da una prospettiva unitaria e di scenario, una pioggia di denari che potrebbe non bastare per arrestare un declino oggi irreversibile. Un dato preso come esempio: per le infrastrutture la manovra di bilancio prevede per la Capitale solo 1,95 miliardi di cui solo 350 milioni per quelle nuove. Allora mi chiedo come si possa completare finalmente l’anello ferroviario di Roma che costa non meno di 1,8 miliardi se anche nel Recovery Plan per questi interventi sono previsti 700 milioni aggiuntivi da spalmare su tutta Italia? E ciò che sorprende è che ad esempio Milano, sempre nella Legge di Bilancio, riceverà 3,4 miliardi per le opere e di questi 1,2 per quelle nuove. Roma, lo ripeto, solo 350 milioni. Ecco perché dal Recovery ci saremo attesi un ‘risarcimento’ che non c’è stato.