Roma
Vivere con la puzza dei cadaveri bruciati. "Eravamo ebrei", la memoria dei Mieli
di Patrizio J. Macci
Un libro composto da oralità allo stato puro. È il racconto della memoria di Alberto Mieli deportato giovanissimo nel campo di concentramento di Auschwitz redatto insieme alla nipote Ester Mieli, affinchè gli eventi non vadano perduti e nessuno possa mai dimenticare o (ancor peggio) negare l'inferno dei lager nazisti.
Lo hanno scritto Alberto e Ester Mieli, "Eravamo ebrei", ed è pubblicato da Marsilio Editore nella ricorrenza del "Giorno della Memoria".
Alberto Mieli racconta con dovizia di particolari senza tralasciare i dettagli più scabrosi e disumani, la sua cattura nella Capitale per due francobolli ricevuti in dono dalle mani di alcuni Partigiani, le torture subite da solerti soldati delle SS e il trasbordo al Campo di Fossoli, tappa intermedia fino all'approdo finale all'inferno del vero e proprio campo di concentramento in Germania.
Il racconto della giornata tipo del Campo e delle piccole lotte per sopravvivere, circondati dai cadaveri e dall'orrendo puzzo di sostanze chimiche e dall'odore di corpi bruciati provenienti dai forni crematori. Le divise che non riparano dalle temperature estreme, i pidocchi che infestano le baracche, l'orrore dell'essere umano ridotto a macchina per lavorare fino al suo esaurimento: la morte. Gli aguzzini sono delle controfigure mai in primo piano, il libro delinea invece la "perfezione" dei loro gesti, la ritualità dell'appello al mattino nella neve a decine di gradi sotto zero e le percosse somministrate per qualsiasi motivo in continuazione.
Il tutto in uno scenario surreale nel quale la vita umana non ha più valore, ma dove imperano la crudeltà e la ferocia. I cognomi dei compagni di sventura di Mieli che muoiono si allunga di giorno in giorno, e saranno pochissimi quelli che l'autore risucirà a rivedere al suo rientro a Roma.
Mieli riuscì a salvarsi, e nelle ultime pagine sembra chiedersi anche lui il perché; cerca un senso a un'esperienza inspiegabile mentre guarda il numero che lo ha marchiato come una bestia sul suo braccio e che nessuno potrà mai cancellare: 180060
Il racconto finale che si svolge nel Dopoguerra, quasi un'appendice a sè stante, tiene con il fiato sospeso ed è il senso del libro: mai portare rancore e covare vendetta, perdonare è l'unica strada per la salvezza.
L'autore dona quello che ha ricevuto (la salvezza della propria vita) atrraverso il racconto, permettendo a qualcuno altro (la nipote) di salvare altre vite attraverso la scrittura di pagine che esorcizzano il male e sono un monito alle generazioni future.