Roma

Zingaretti pronto a cedere la Regione Lazio in cambio del futuro da leader Pd

“Raggi? Una minaccia”. Il ritrovato protagonismo sulla scena romana di Zingaretti nasconde un disegno. L'analisi di Andrea Augello

di Andrea Augello

Nicola Zingaretti non è mai stato un protagonista della comunicazione hard: semmai tutti lo conosciamo - e alcuni per questo lo apprezzano - per il suo stile pacato, quasi mai sopra le righe, aperto, almeno formalmente, più al dialogo che allo scontro frontale.

Anzi, ora che ci penso, non mi ricordo che mai si sia avventurato in uno scontro testa a testa con nessun avversario o concorrente politico. Neppure con Matteo Renzi, che pure della faida mediatica è un campione strapaesano indiscusso.

Desta quindi stupore il modo in cui ha immediatamente tagliato la strada alla ricandidatura del Sindaco Raggi, non tanto per la sostanza di una posizione già nota ed espressa anche in passato, ma per i toni, per l’attenta scelta di parole urticanti e umilianti per la provvisoria inquilina del Campidoglio, la cui ricandidatura è stata definita, senza mezzi termini “una minaccia” per la città.

La verità è che Zingaretti, da diverse settimane, si ritrova impegnato in una guerra sporca e difficilissima con i suoi alleati di governo, costretto a combattere su diversi fronti ormai sovraesposti anche sul versante, per lui secondario, della sua attività amministrativa.

Bisogna dare atto al presidente della Regione di una notevole abilità nell’aver gestito al meglio, alle condizioni date, la rottura tra Salvini e Di Maio, fabbricando un’ alleanza rosso-gialla, nella quale il suo partito sembrava controllare i bizzosi alleati, saccheggiandone il già ridimensionato serbatoio elettorale. Nel Lazio si era invece parato le spalle con un’alleanza ufficiosa con la Lombardi, rinforzata da qualche intermittente agreement personale con singoli consiglieri eletti nel centrodestra in cerca di poltrone e nomine. Insomma la cosa sembrava funzionare, con tanto di crescita del PD nei sondaggi e della popolarità del suo leader nel gradimento del Belpaese. L’idea era tirare avanti un paio di anni, eleggere il nuovo Presidente della Repubblica e poi tornare al voto, sperando in un contestuale logoramento del centrodestra. Nella road map di questo percorso era implicito lo scambio, a livello locale, con i 5 Stelle, tra il Campidoglio, con un sindaco indicato dal Pd, e la Regione, destinata presumibilmente alla stessa Lombardi.

Tutto apparentemente logico e lineare, se non fosse per una legge della fisica politica, ben nota, per averla in passato colpevolmente ignorata, a chi scrive - ma anche ad apprendisti stregoni di qualità come Goffredo Bettini - , che esclude che la geometria euclidea sia applicabile alla meccanica quantistica.

I ragionamenti politici lineari richiedono una costante stabilità, indispensabile per giungere, nei tempi medi, alle conseguenze auspicate, quindi necessitano di un quadro equilibrato, meglio ancora se statico, incardinato su donne e uomini d’ordine altrettanto razionali e disponibili a dividersi il lavoro, ad assecondare la logica di un comune disegno in vista di un comune beneficio. Un’ aspettativa del genere è, da oltre un decennio, una mera illusione, perché gli equilibri politici sono troppo fluidi e molti tra i nuovi attori politici sono schiavi di una comunicazione logorante e frenetica, risultando quindi inaffidabili, volubili, bulimici, incapaci di comprendere i loro limiti e soprattutto bugiardissimi.

Inoltre Zingaretti ha preteso di strafare: si può correre su una fune da equilibrista tesa su un’alleanza anomala alla Regione o al Governo, ma è davvero chiedere troppo resistere tre anni su entrambe le funi, con Renzi e Di Maio ai due capi di quella governativa, impegnati ogni giorno a segarne l’intreccio.

Il campanello d’allarme è suonato con la decisione della Corte dei Conti di imputare di danno erariale Zingaretti e il suo predecessore per il controverso acquisto della nuova sede parnasiana della Provincia di Roma. Da quel momento in poi è andato tutto male. L’emergenza Covid ha cambiato - in peggio per il PD - gli equilibri della coalizione, I 5 Stelle hanno provvisoriamente arrestato il loro crollo nei sondaggi, riprendendo a stressare Gualtieri e gli altri ministri del Pd con un diktat a settimana - prediligendo come stress day il giovedì -, mentre Conte, impadronitosi di tutte le reti televisive, ha tentato con qualche successo di convincersi - e di convincere gli italiani - di non essere un semplice prestanome collocato a Palazzo Chigi per coprire un’alleanza impresentabile, ma di essere almeno un prestanome pieno di ambizioni e di buone intenzioni, quantunque dall’eloquio assai confuso e con un timbro gutturale di memoria biscardiana. Anche Renzi non ha perso tempo, cogliendo al volo l’abnorme inconsistenza di Bonafede, per avviare una fortunata esercitazione militare parlamentare che gli ha fruttato un discreto bottino di nomine e visibilità. Infine i sondaggi del Pd hanno registrato una battuta di arresto, dopo cinque settimane di promettente rimonta sulla Lega , a sua volta ridimensionata da una maldestra gestione della fase Covid.

Nel frattempo a Roma è esploso il pasticcio delle mascherine, con ben tre inchieste tra Procura, Anac e Corte dei Conti, rammentando a Zingaretti tutte le insidie della gestione di un ruolo amministrativo, avendo le spalle coperte solo da una banda di fessacchiotti incapaci, alcuni dei quali talmente sciagurati da meritare la più viva gratitudine di tutta l’opposizione. Per paradosso, la sua fortuna è stata che le tempestive denunce del caso da parte dei suoi oppositori hanno stroncato sul nascere un pericoloso carosello amministrativo di revoche e novazioni contrattuali, in cui il tentativo di nascondere la verità avrebbe portato, alla fine, a conseguenze giudiziarie molto più serie di quelle che comunque registreremo nelle prossime settimane. Tanto gli è bastato a comprendere che il fronte regionale potrebbe rivelarsi esiziale in qualsiasi momento per la sua immagine e per il suo futuro di leader.

Insomma tutto sta scricchiolando in modo preoccupante ed è normale che ora il capo del Pd si chieda se non sia il caso di accorciare i tempi della sua strategia di sopravvivenza, abbandonando la Regione e portandoci tutti alle elezioni entro marzo. Affrontare il ciclone sociale della cosiddetta fase due in queste condizioni sarebbe infatti un vero suicidio, visto che saranno in tutta Europa i partiti e i leader di governo, al di là dei loro demeriti, a pagare il prezzo di tensioni e contraddizioni mai vissute prima, se non forse alla fine degli anni Venti. Un rischio che sarebbe ragionevole e doveroso correre, se non fossero i suoi stessi compagni di governo a volergli far pagare il prezzo più alto. Di qui la necessità di tenersi pronti - o almeno di far credere di essere pronti - ad una brusca virata verso le urne.

In questa chiave trova una spiegazione il ritrovato protagonismo sulla scena romana, prima sconfessando il suo stesso staff sulla questione mascherine, attraverso il riconoscimento pubblico delle ragioni dell’opposizione e l’invio in Procura di tutte le carte dell’affare Ecotech, poi schiaffeggiando in modo teatrale Virginia Raggi. L’idea sembra quella di riprendere il controllo della situazione, di sottrarsi nel più breve tempo possibile da ogni sospetto di aver anche indirettamente favorito speculazioni sulla pandemia, dando anche segnali di forza agli alleati nazionali dei 5 Stelle e alla sua sodale più importante in Regione, la silente Lombardi, encomiabilmente omertosa sull’affaire mascherine.

Anche qui Zingaretti lavora per un futuro molto prossimo: il sentiment della Lombardi per la Raggi, liberamente tratto dal sereno rapporto tra la Regina Grimilde e Biancaneve nel film di animazione di Walt Disney del 1937, è una base sicura per costruire una vera alleanza elettorale, a Roma e nel Lazio, tra Pd e 5 Stelle. Basta liquidare Biancaneve e il gioco è fatto. Un gioco strategico, visto che il Lazio rimane comunque la capitale politica della leadership di Zingaretti.

Ma è davvero possibile per il nostro eroe sottrarsi ad una situazione così difficile, trovando la strada delle urne o anche solo minacciando una scelta di questo tipo?

Difficile rispondere a questa domanda. Troppe le variabili in gioco e i rischi di un’implosione non controllata della coalizione di governo. Come già ricordato, nella politica del terzo millennio ci sono lunghe fasi di navigazione a vista e oggi il problema di Zingaretti è scegliere tra fare porto con un turno elettorale prima della burrasca o affrontare la tempesta sociale che già oscura l’orizzonte, con una nave malconcia e rabberciata e l’equipaggio pronto all’ammutinamento. Normale che voglia almeno tenersi aperte entrambe le strade. Quale imboccherà davvero? Lo vedremo nelle prossime settimane: per ora limitiamoci a registrare un tentativo di adattamento della sua linea politica e comunicativa alle mutate circostanze.

Del resto il futuro, nella meccanica quantistica, è il regno dell’imponderabile.