Big Quit: i veri motivi nel fenomeno delle Grandi Dimissioni
Di Big Quit o Great Resignation negli ultimi mesi si sente parlare da più parti ma in questo articolo vorrei proporre un'angolatura diversa da cui guardare questo fenmeno. Un'angolatura che ha a che fare con ognuno di noi, a prescindere che siamo parte attiva o meno di questo fenomeno.
Big Quit e Great Resignation cosa significa?
Big Quit (grande licenziamento) e Great Resignation (grandi dimissioni) sono di fatto sinonimi: due definizione coniate in America nel 2021 per indicare quello che appare come un massivo fenomeno di dimissioni volontarie: 4.53 milioni gli Americani che hanno lasciato il loro lavoro, secondo l'ultimo JOLTS report, solo in novembre 2021.
Effetto della filosofia del "Si vive una volta sola"?
O forse del fatto che il mercato è rimasto bloccato per oltre un anno e al liberi tutti ci siamo scatenati a riprendere ciò che era stato lasciato a metà?
Ma soprattutto, in Italia, sta davvero succedendo altrettanto?
Domande interessanti che si inseriscono in una narrativa sul mercato del lavoro che è sempre più confusa e (apparentemente) polarizzata dal vociare tipico di social e titoli acchiappa-click a cui gli ultimi anni ci hanno (purtroppo) abituati.
Vediamo quindi di approfondire, al di là delle facili propagande, quali sono i veri motivi del Big Quit.
Big Quit: i numeri del fenomeno delle Grandi Dimissioni
Una delle cose che più mi colpisce negli ultimi tempi è il modo con cui vengono manipolati i dati, probabilmente cavalcando il fatto che la matematica è una delle materie più ostiche per la maggioranza delle persone.
Deve essere per forza questo il pensiero che induce alcuni comunicatori da strapazzo a dare annunci epocali che però, una volta guardati sotto il lanternino della matematica vera (quella che NON è un opinione), mostrano una realtà che è paurosa quanto il topolino dietro l'elefante.
"Il 75% delle aziende è rimasta colta di sorpresa dal fenomeno delle Grandi Dimissioni."
"Anche in Italia fioccano le dimissioni. Il 79% delle persone residenti nel nord Italia"
Sembrano numeri impressionanti, vero?
Aspetta a rispondere, prima facciamo un gioco di magia: svestiamo le percentuali e lasciamo parlare i numeri, nudi e crudi.
Quelli della Banca d'Italia, per esempio: "Nei primi 10 mesi dell’anno sono state rilevate 777.000 cessazioni volontarie di rapporti di lavoro a tempo indeterminato, 40.000 in più rispetto a due anni prima. [...] I numeri suggeriscono che in un contesto di forte incertezza i lavoratori, più spesso che in passato, hanno verosimilmente rassegnato le dimissioni solo a fronte della prospettiva di un nuovo impiego."
Ora, se consideriamo che, sempre stando ai numeri assoluti, in Italia i lavoratori dipendenti sono 17 Milioni e 785 mila (fonte Truenumbers), i 40'000 licenziati in più corrispondono ad un miserrimo 0,22%.
Come ben sottolinea il dottor Nicolò Giangrande, economista e ricercatore della Fondazione Giuseppe di Vittorio «il fenomeno va monitorato nei prossimi mesi e approfondito in tutte le sue dimensioni. Siamo in un contesto che ancora non può essere definito post pandemico e le dimissioni possono essere state determinate dai più diversi motivi. Ad esempio essere state decise tempo fa e rimandate a causa dell’incertezza generata dalla pandemia, oppure forzate da parte delle imprese che non potevano licenziare o incentivate in vista di una propria riorganizzazione».
Insomma, i numeri ci sono, un movimento c'è stato ed è ancora in corso. Ma la maggior parte delle persone - almeno in Italia - ha ancora tantissima PAURA e questo nasconde un problema più grosso.
Ovvero il fatto che in realtà ad oggi, solo un piccolissimo numero di persone ha il coraggio, la forza e le condizioni per reclamare di più per la propria felicità lavorativa.
E probabilmente, se non faremo niente per imparare una delle lezioni più grandi che la pandemia ci ha portato, tra qualche mese tutto questo sarà svanito nel nulla e noi saremo ancora più strutturalmente impreparati ad affrontare il vero cambiamento in corso nel mondo del lavoro di oggi: la depersonalizzazione e la tecnologicizzazione dei luoghi e delle attività lavorative, capaci di sgretolare equilibri sociali fino a pochi anni fa consolidati.
Big Quit: la lezione della pandemia
Si vive una volta sola. La vita è breve, ti può essere strappata in un attimo.
Questa la fondamentale prima lezione che in tanti abbiamo letto nella pandemia.
Con un corollario non meno importante: non ha nessun senso (s)vendere il proprio tempo e la propria libertà ad un'azienda che
- non ti rispetta - imponendoti di essere presente in spazi, tempi e luoghi solo per la propria comodità e incapacità di immaginare alternative di lavoro più produttive
- non ti valorizza - imponendoti per la maggior parte del tuo tempo di essere un mero esecutore di task assegnate o un risolvitore di problemi molto spesso evitabili con una migliore organizzazione e con skills comunicative e relazionali migliori
- non ti permette di esprimere la tua creatività - imponendoti di seguire procedure scritte da altri e sulle quali hai poca o nessuna possibilità di azione, dimenticando che proprio dalla creatività nascono i più preziosi fiotti di innovazione e dunque il più grande potenziale di competitività al giorno d'oggi.
Big Quit: i veri motivi della Great Resignation
Non stupisce quindi che, secondo un'analisi pubblicata nello MIT Sloan Management Review il motivo alla base del fenomeno del Big Quit risulta avere poco a che fare con questioni economiche, benefit o migliori condizioni lavorative.
Secondo un'indagine che ha interessato oltre 600 aziende infatti pare che il motivo che ha indotto tante persone a licenziarsi ha a che fare con qualcosa di parecchio più difficile da risolvere:
- una cultura lavorativa tossica,
- il non sentirsi valorizzati,
- il non trovare un senso in ciò che si fa.
Il che porta ad aprire il secondo elemento importante di questo discorso: volere un senso oltre lo stipendio è una pretesa arrogante frutto della nostra società opulenta e consumistica, una manifestazione di egoismo individualista?
Perché è un po' questo il messaggio che i media rischiano di far passare: i numeri del big quit dimostrano che sempre più persone vogliono essere "povere ma felici" (titolo peraltro di un report per il quale una nota TV nazionale mi voleva intervistare).
La facile (e pericolosa) demagogia dietro la narrazione del Big Quit
Tra fine dicembre e inizi gennaio, per via della mia attività come Consulente di Carriera e founder del percorso di Skills Training Azione IKIGAI sono stata contattata da alcuni giornalisti della carta stampata e della Televisione nazionale.
Da tutti un'unica richiesta: risulta anche a te che ci sia il fenomeno del Big Quit in corso? Quali sono i numeri che vedete voi?
Ma soprattutto: mi dici i nomi di alcune persone, tuoi clienti, che hanno mollato un lavoro sicuro magari per andare a fare qualcosa di meno ben pagato ma che gli permette di essere felici?
Voilà. La storiella da rotocalco è servita.
"Lascia il prestigioso lavoro da manager per allevare lumache in Basilicata"
"Lascia il ben pagato lavoro da ingegnere e ora aggiusta biciclette in una piccola officina in montagna".
Belle storie, certo. Ma non sono la storia di tutti. E soprattutto non ci permettono di imparare la vera lezione che ci serve imparare da questa situazione.
Una lezione di cui parlo da tempo, fin dal mio primo libro "Un lavoro che vale per una vita che vale" in cui già parlavo delle criticità legate all'estendersi del campo di dominio dei robot e dell'intelligenza artificiale.
Una lezione che però ancora troppo pochi stanno cogliendo nella sua essenza - e pericolosità.
Il problema che sta sfuggendo è che la ricerca di un senso oltre lo stipendio, di una vita che vale la pena di essere vissuta (e dunque non può essere svenduta 8,10,12 ore al giorno in un lavoro che ti spreme come un limone) NON è una pretesa arrogante ma è (forse l'ultima) grande opportunità che abbiamo di salvarci come specie umana.
Perché l'alternativa, una volta che tutti avremo supinamente accettato il fatto che è normale continuare a vivere per lavorare - perché c'è la crisi, c'è la pandemia, c'è la globalizzazione, c'è il caro bollette... - ed è normale accettare lavori insoddisfacenti perché oggi il mondo è veloce e ti lascia a terra da un momento all'altro...
...una volta che tutti (anche quel misero 0,22% che adesso starebbe provando ad alzare la testa) avremo accettato che è giusto che il nostro lavoro quotidiano sia fatto di task che per noi non hanno nessun senso ma servono a produrre ricchezza per un sistema che, non appena lo desidera, ci dichiarerà troppo vecchi, troppo obsoleti e ci preferirà uno dei tanti robot e algoritmi disponibili...
allora noi umani avremo veramente perso la battaglia.
E non perché i robot ci avranno rubato il lavoro. Ma perché noi avremo regalato ai robot, alla tecnologia e alla produttività digitalizzata incontrollata la nostra essenza: quella di esseri cercatori di senso, cercatori di contatto e costruttori creativi. A quel punto il problema più grave non sarà - come temevamo tempo fa - che resteremo senza lavoro per causa dei robot.
A quel punto il problema sarà che dovremo piegare la testa come schiavi dei robot.
Per i quali non serve nessun senso oltre lo stipendio.
Erica Zuanon
Ingegnere, Content Strategist e Consulente di Carriera
www.azionelavoro.it