Great Resignation: il lavoro non basta più
Nel finale del film L’appartamento, una delle vette più alte del cinema multiforme di Billy Wilder, un everyman americano e impiegato di una multinazionale assicurativa, C.C. Baxter (Jack Lemmon), decide di non sottostare più alle angherie dei propri colleghi nonché del capo Sheldrake (Fred McMurray), licenziandosi in tronco nonostante abbia appena ricevuto una prestigiosa promozione a dirigente.
Baxter prende questa scelta perché, come afferma testualmente, “ha deciso di diventare mensch” (in tedesco essere umano), prima di uscire per sempre dal suo nuovo e lussuoso ufficio.
Il personaggio di Jack Lemmon nel film non è altro che un protagonista succube del cinismo e del bieco individualismo del mondo del lavoro degli anni ’60 negli Stati Uniti, la patria del capitalismo.
Baxter sceglie di dire basta per amore di Fran Kubelik (Shirley MacLaine), ovviamente, e ciò che si evince dal film di Wilder, a distanza di oltre sessant’anni, è l’incredibile adesione a ciò che i media internazionali da diverso tempo ormai riportano con frequenza pressoché costante oggi, nel 2022.
La vita di C.C. Baxter è costantemente asservita al mondo del lavoro. Avvelena la sua sfera privata, lo spazio più intimo e personale di ognuno di noi.
A pagare le conseguenze è la salute di Baxter che alla fine trova la forza per dire basta.
Esattamente quello che hanno fatto ben 4 milioni di persone nel mese di Luglio 2021, stando ai dati dell’US Bureau of Labor Statistics.
Non in un film. Nella realtà vera.
Un fenomeno diventato ormai noto con il termine di Great Resignation (in italiano Grandi Dimissioni), secondo il nome coniato da Anthony Klotz, professore di management alla Mays Business School della Texas A&M University.
Un trend già iniziato con la filosofia YOLO (You Only Live Once ovvero Si vive una volta sola) e che vede protagonisti ormai su scala globale, soprattutto i cosiddetti Millennial (nati tra il 1981 e la fine degli anni ’90) e gli appartenenti alla Generazione Z (nati tra la fine degli anni ’90 e i primi dieci anni del ventunesimo secolo).
Ma la questione non si limita soltanto ad un aspetto anagrafico. Sono diversi i lavoratori che sono sottoposti ad un alto tasso di stress.
In un biennio falcidiato dalla pandemia e dalla conseguente emergenza sanitaria, neppure l’aumentare delle incertezze sul futuro e il generale aumento di ansia e panico tra le persone ha funzionato da deterrente per delle scelte maggiormente conservative.
Anzi, proprio una maggiore fragilità psicofisica ha contribuito ad aumentare la necessità di condurre una quotidianità libera il più possibile da stress, sfruttamenti e tossicità.
L’ossessione della performance ad ogni costo, anche quello psicofisico delle persone che contribuiscono all’obiettivo finale, sembra essere sempre più difficile da digerire nella società della performance, come raccontano nell’omonimo libro i filosofi Maura Gancitano e Andrea Colamedici.
Una società che ha perso la capacità di crearsi i suoi spazi, quegli stessi spazi che permettono agli attori di creare una vera forma di narrazione, che non sia compulsiva e soggetta all’immediatezza ma che sappia prendersi il suo tempo.
E cos’è una fuga dalla performance ad ogni costo, se non una ricerca di un tempo proprio, di un luogo per sé e per la propria realizzazione?
La Great Resignation in fondo racconta anche questo.
Racconta la condizione di persone sature di un sistema che non prende in considerazione la qualità del loro tempo lavorativo, dimenticando che è proprio con il lavoro che gli esseri umani trascorrono la maggior parte delle loro vite.
Come ogni fenomeno che mantiene una determinata centralità nel dibattito comune, alla Great Resignation hanno iniziato ad occuparsene anche le aziende, le prime ‘vittime’ di questa situazione.
Great Resignation: quali soluzioni adottare?
Secondo quanto riporta Il Sole 24 Ore, l’importanza all’ascolto dei propri dipendenti è fondamentale, soprattutto in conseguenza di un ‘work-life balance’ ormai in vetta nella scala prioritaria.
Ascoltare i propri lavoratori significa essere disponibili a ricevere informazioni e suggerimenti su ciò che loro in prima persona svolgono ogni giorno.
Significa cercare di capire in che modo poter incrementare la qualità della loro esperienza, direttamente proporzionale alla qualità del risultato prodotto.
Inoltre è importante analizzare razionalmente la situazione e capire quante dimissioni sono volontarie e in quale reparto aziendale eventualmente si concentrano le maggiori defezioni per poter studiare degli adeguati piani di retention e trovare le soluzioni adeguate per cambiare definitivamente un mondo del lavoro che non può più permettersi di sottovalutare un aspetto fondamentale del processo lavorativo.
A questo punto sembra piuttosto chiaro quanto sia difficile considerare un fuoco di paglia la Great Resignation, anche in relazione ad un altro dato, forse quello più inaspettato.
In base ad una ricerca di McKinsey svolta su un campione di 6.000 soggetti in età lavorativa tra Australia, Canada e Stati Uniti, il 36% di chi si è dimesso non aveva ancora la certezza di avere un nuovo impiego. Si tratta di un dettaglio fondamentale, perché differenzia la Great Resignation da fenomeni analoghi del passato.
Una conferma di come non sia più il lavoro a definire la persona, come tradizionalmente accade.
“Che cosa fai?” oppure “Di che cosa ti occupi?” sono domande primarie che solitamente caratterizzano i primi attimi di conoscenza tra due persone.
Oggi invece è sempre di più la persona stessa, con le proprie uniche caratteristiche, a definire il proprio lavoro.
Basta. L’etimologia di questa parola è attualmente sconosciuta ma un’ipotesi molto caldeggiata è che derivi dal greco bastàizen, sopportare. Un’esclamazione potente e performativa. Chissà quanti appartenenti alla Great Resignation ad un certo punto l’hanno esclamata ad alta voce, proprio per fuggire da quell’ossessione performativa e tossica che ne pregiudicava il benessere psicofisico.
Di sicuro, se vi fanno parte, se ne sono andati da un ambiente nocivo come C.C. Baxter in L’appartamento.
Per non essere più comparse strumentalizzate dalla professione ma protagonisti felici, ingaggiati nel proprio lavoro e alla guida della propria vita.
Erica Zuanon
Ingegnere, Content Strategist e Career Coach
www.azionelavoro.it