Casa della Carità, sempre più giovani stranieri alle docce: 1 su 10 è italiano
In aumento le persone che arrivano dall’Africa sub sahariana (Gambia, Mali, Guinea, Ghana, Nigeria) e Sudamerica, perlopiù donne incinte e bambini
Povertà, impennata di giovani stranieri che accedono allo spazio docce della Casa della Carità
Tra I vari servizi offerti dalla Casa della Carità ai senza fissa dimora milanesi, c'è senz'altro lo spazio docce e quello guardaroba. Il servizio è gestito da un gruppo di operatori insieme a volontarie e volontari, tra cui Ciro Di Guida e Moussa Abdallah, rispettivamente responsabile e operatore del servizio, che - sul sito della stessa Casa della Carità - raccontano chi sono oggi gli ospiti delle docce.
“Negli ultimi anni stiamo notando un cambiamento nelle persone che arrivano alle nostre docce, soprattutto dopo la riapertura post Covid: meno della metà sono ‘storici’ ospiti, cioè persone conosciute da tanto tempo, di età media superiore ai 40 anni, mentre sono in forte aumento i giovani stranieri, tra i 20 e i 40 anni, arrivati in Italia da poco tempo, soprattutto dai Paesi del Nord Africa”, afferma Ciro Di Guida.
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Ad aumentare - riporta Il redattore sociale - sono anche le persone che arrivano dall’Africa sub sahariana (Gambia, Mali, Guinea, Ghana, Nigeria, Costa d’Avorio) e i sudamericani, soprattutto da Perù ed Ecuador. “In questo caso si tratta di famiglie e donne incinte o con bambini”, precisa Moussa Abdallah. Gli italiani che frequentano le docce sono circa il 10% del totale. In questo caso sono quasi esclusivamente uomini adulti, che hanno alle spalle storie di fallimenti familiari o lavorativi.
La maggior parte delle persone che si rivolgono alle docce della Casa vivono in edifici dismessi che si trovano tra Crescenzago, Cascina Gobba e Lambrate. “Sappiamo però che diverse persone hanno lasciato Milano per andare verso la provincia, perché gli edifici in cui vivevano sono stati sgomberati, per fare spazio a nuove costruzioni. Inoltre in città sta aumentando il controllo delle forze dell’ordine e i servizi di aiuto e accoglienza sono spesso saturi. Per questo molti provano ad andare fuori”, racconta ancora Moussa.
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Altre persone vivono in case occupate o sovraffollate: “Non vediamo solo di ‘gente di strada’, ma ci sono anche persone che hanno un lavoro e una qualche forma di alloggio, seppur precario, ma che nel luogo in cui vivono non hanno la possibilità di lavarsi e cambiarsi”, aggiunge Ciro.
Oltre ad esprimere bisogni essenziali – lavarsi, vestirsi, mangiare – le persone che arrivano alle docce esprimono anche una domanda abitativa, lavorativa, sanitaria e di accesso ai diritti di cittadinanza. Spiega il responsabile del servizio: “Nella maggior parte dei casi le persone che arrivano devono ancora iniziare l’iter per chiedere il permesso di soggiorno e quindi non sanno dove andare né per trovare accoglienza né per fare i documenti.
Oltre a offrire loro la doccia, li indirizziamo quindi al centro di ascolto o all’avvocato”. “Devo dire però – aggiunge – che stiamo notando una fatica sempre maggiore ad accogliere le nostre proposte. Capita infatti che diamo loro un appuntamento con l’avvocato e non si presentano oppure proponiamo dei laboratori di arte terapia e cucina o il corso di italiano. Magari li frequentano per un po’ ma poi mollano, perché la loro priorità è lavorare e guadagnare”.
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“L’aggancio è diventato più difficile, anche perché notiamo un uso sempre maggiore di alcol e sostanze” -spiega poi Moussa - “Vediamo che molte persone non si fidano molto di noi. Preferiscono affidarsi ai connazionali, che magari sono qui da più tempo, anche se questi li portano su strade sbagliate o spesso li sfruttano con lavori sottopagati”.
Nonostante le difficoltà, ci sono anche esiti positivi. Conclude Ciro: “È capitato che diverse persone siano state avviate a corsi di alfabetizzazione, percorsi di formazione o lavorativi. Dall’accesso alle docce può anche scaturire un progetto di accoglienza alla Casa della Carità. Non mancano poi le storie di riscatto: solo pochi giorni fa ho saputo che un ex ospite del servizio oggi ha una famiglia, una casa e lavora come mediatore culturale proprio per uno dei nostri progetti sul territorio”.