Berlusconi e l'omelia di Delpini, piccolo gioiello architettonico di oratoria

Ai funerali di Silvio Berlusconi l'arcivescovo di Milano ha pronunciato un'omelia trasformatasi in un evento religioso, culturale e teologico. Ecco perché

di Giacomo Costa
Mario Delpini
Cronache

Funerali Berlusconi, l'omelia di Delpini (nè pro nè contro Silvio) ha sconcertato e stupito la folla presente in Duomo 

Io direi senza voler eccedere nell’enfasi che l’omelia di Mons. Delpini, arcivescovo di Milano ma non cardinale, è un evento religioso, culturale, teologico che supera per importanza, per salienza, quello della morte della persona per la quale esattamente una settimana fa è sta pronunciata. Non sarebbe un evento nuovo: chi si ricorda delle regine, principesse, granduchi, alti dignitari ai piedi dei cui feretri Bossuet (16027-1704) pronunciò le sue orazioni? Ma le sue orazioni funebri le leggiamo ancora.

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L’omelia, un piccolo gioiello architettonico di oratoria che acrobaticamente è riuscita a non assumere mai dei toni alti, ha lasciato la folla presente in Duomo, e anche all’esterno, sconcertata e stupita. Nessuno capiva se fosse pro o contro. E la lunga desuetudine a questo tipo di oratoria ha fatto sì che a quasi nessuno venisse in mente che potesse essere né pro né contro, ma piuttosto rivolta ai presenti, quasi tutti credenti a dir poco assai trascurati, ma comunque quelli che un tempo sarebbero stati i fedeli.

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Una predica non santimoniosa, non tradizionale, non agiografica, forse simpatetica, stilisticamente quasi cinematografica. Non è vero che non manifesti una conoscenza del suo soggetto. Lo vede in alcune scansioni obbligate della vita, ma non ne approfondisce nessuna, e si guarda bene dal considerare l'aspetto morale dei tentativi del soggetto per raggiungere una o molte forme di pienezza. Direi che non sia molto diversa dal film di Sorrentino, al quale forse l'arcivescovo - un raro arcivescovo che sa scrivere e comporre- si è ispirato. Si potrebbe anche supporre che Mons. Delpini avesse in mente il Peer Gynt di Ibsen, l’eroe della varietà e dell’infinita dispersione, che però l’amore di una fanciulla a lungo dimenticata che è rimasta ad aspettarlo per una vita in extremis salva.

Veniamo ora a un aspetto elementare ma fondamentale dell’omelia: è condotta tutta con i verbi all’infinito: “vivere, gioire, lottare…”. Non è usuale. Un filosofo come Husserl, se fosse stato italiano, avrebbe forse fatto così. E però in questi infiniti mi pareva che ci fosse qualcosa che avevo già sentito. Molti, molti anni fa, l’avevo sentito cantare dalla mia mamma: la canzone “Vivere” (1937). Eccone un brano, che chissà se Mons. Delpini aveva presente: "Vivere, senza malinconia, vivere, senza più gelosia senza rimpianti, senza mai più conoscere cos’è l’amore, cogliere il più bel fiore e goder la vita e far tacere il cuore. Ridere, sempre così giocondo, ridere, delle follie del mondo vivere finché c’è gioventù, perché la vita è bella e la voglio vivere sempre più". 

Beh, gli infiniti di “Vivere” sono quelli di uno che ha avuto una profonda delusione d’amore, che supera relativizzando tutto. Questo non sembra il caso del nostro soggetto, anch’egli del resto un grande relativizzatore. Ma l’analogia sussiste. Così la pura grammatica mette a nudo delle strutture antropologiche alle quali il nostro soggetto ha partecipato, ma alle quali partecipiamo tutti, le forme esistenziali della nostra vita, non solo intima ma associata. Queste sono descritte nella loro crudezza, pesantezza. Le avventure del soggetto diventano le avventure di noi tutti. E’ come se accompagnassimo il soggetto in un sintetico ri-svolgimento della sua vita nei suoi momenti drammatici (mai in quelli moralmente discutibili che invece sia pur con leggerezza Sorrentino tocca). In alcuni punti sembra che nella ricerca della gioia il tedio e il grigione dilaghino. Una via crucis? Ciascuno dei presenti si è sentito afferrato da quegli infiniti come da delle tenaglie, e molti ne sono stati inquietati.

Ritorniamo a Bossuet. Di lui è stato detto che “le sue più belle orazioni funebri riflettono l’idea che egli si faceva del destino umano per cui le imprese più straordinarie, i successi più clamorosi si chiudono con la morte come ogni altra cosa umana. E la morte dei potenti della Terra deve essere meditata dai viventi come esempio insigne della giustizia e della bontà di Dio.”

Qual è per Bossuet la differenza tra il povero e il ricco e potente? Che il povero è sempre con Dio. Il ricco e potente è pieno di orgoglio e di Dio non ne vuole sapere, ma prima o poi nella lotta politica di Corte viene sconfitto, e allora diventa pronto a farsi riprendere da Dio. Un’altra idea che forse viene da Pascal, ripresa da Bossuet, e che arriva sino a Manzoni (“Ove è silenzio e tenebra la gloria che passò”) è che pur nella bolla di autosufficienza in cui il ricco e potente opera esistono delle smagliature, dei piccoli varchi, attraverso i quali Dio manda dei segni, suggerisce dei dubbi, delle perplessità salvifiche.

Questo sarebbe il nostro personaggio come genialmente interpretato una ventina d’anni fa dalla brava Sabina Guzzanti: un uomo che senza accorgersene seguiva affascinato il dipanarsi di un dubbio esistenziale profondo sino a disfarsi. Infatti risultava più simpatico nella caricatura che nella realtà. Possiamo supporre che anche Mons. Delpini mirasse non a sostenere, ma a suggerire qualcosa di simile? Io direi di sì: parla apertamente dell’ "l'insinuarsi di una minaccia oscura".

Avrei quindi compiuto il mio esercizio interpretativo. Ma l’evento salvifico sarebbe mai avvenuto? Non credo. Il soggetto non era l'Innominato. Non c'erano crepe nascoste, il tema della grande apologetica, nella sua auto-soddisfazione.

Ritorniamo ai quasi-fedeli presenti in Duomo. Il disagio e le lamentele che alcuni di loro hanno espresso hanno una doppia origine: pur con la sua lentezza, il cattolicesimo si sta evolvendo. L’omelia di Mons.  Delpini sarebbe del tutto normale in un paese protestante. Ma i quasi-fedeli hanno un’istruzione religiosa tradizionale e infantile, nella quale loro stessi non credono. E non solo non capiscono ma non vogliono un discorso religioso evoluto. Vogliono una religione che offra qualche momento di falsa solennità al funzionamento cerimoniale dello Stato. E, grazie a Mons. Delpini, questa volta NON l’hanno avuto.

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