Furlan (Uilca): il risiko bancario non si faccia sulla pelle dei lavoratori
Il segretario del sindacato Uilca ad Affari sui piani industriali di Mps e Bper, l'aumento degli Npl: facciamo il tagliando al mondo bancario
La riduzione dei lavoratori bancari
Un tempo si diceva che il lavoro in banca era un’assicurazione sulla vita. Oggi, pur rimanendo un impiego interessante, sta diventando sempre più complesso. Secondo le elaborazioni Uilca, il sindacato dei lavoratori del credito e delle assicurazioni, tra il 31 dicembre 2015 e il 31 dicembre del 2021 sono stati persi oltre 33mila posti di lavoro. Intesa Sanpaolo ha diminuito il totale dei propri occupati di 3.500 unità nel 2021, Unicredit di oltre 3.000, più di 1.200 il Banco Bpm. I piani per il personale sono già stati consegnati anche per i prossimi anni, dopo essere stati avallati dai sindacati. Ma qualcosa potrebbe ancora cambiare? “Non ci sono pervenute richieste di modifiche – spiega ad Affaritaliani.it Fulvio Furlan, segretario generale della Uilca – per i piani già presentati, mentre attendiamo ancora quelli di Bper e Montepaschi che sono in via di elaborazione”.
Furlan, non vi aspettate sorprese, dunque?
Da Unicredit non ci risultano richieste di modifiche che impattino sul costo del lavoro o sull’occupazione. Ricordiamo che al momento si parla di un’assunzione ogni due uscite e che gli accordi sanciti hanno una prospettiva sostenibile.
Che momento è per il sistema bancario?
Articolato. Ci sono tante partite aperte: l’incremento del costo del denaro che è ormai alle porte, che rappresenta un’occasione per l’incremento dei margini ma anche un rischio in materia di Npl. E poi c’è il risiko che dovrà ripartire e le norme continentali che a volte non sembrano del tutto comprensive verso le nostre esigenze.
Partiamo dal risiko, se non le spiace: Unicredit-Commerzbank, il matrimonio che si continua ad annunciare ma che non si celebra mai: ci sarà la volta buona?
È un’operazione che ogni tanto ritorna, ma io rimango a quello che ha detto Andrea Orcel, cioè che Unicredit farà solo operazioni che diano valore aggiunto. In questo caso addirittura si parla di un matrimonio transnazionale. L’importante è che si mantenga sempre ferma la necessità di dare corso a prospettive industriali significative: usciamo dalla logica del profitto a breve termine.
Parliamo di Montepaschi: a che punto siamo?
Sta lavorando al piano industriale che verrà presentato a breve. Speriamo solo che non richieda ulteriori lacrime e sangue ai lavoratori che già hanno dato tantissimo. Grazie ai loro sacrifici, infatti, l’azienda è ancora attiva. Serve quindi un piano che permetta di vedere la banca come un partner di valore per chi dovesse essere interessato. Serve tempo, serve che il governo garantisca la presenza per il periodo necessario senza essere sotto scacco dell’Europa. Ci attendiamo una proroga che deve essere coerente con la prospettiva temporale del piano industriale - che ancora non sappiamo per quando sarà programmato.
La preoccupa?
Certo che sì, si tratta della banca più antica del mondo, non può essere trattata come un fardello, Qualsiasi soluzione verrà messa in campo non può esulare dalle relazioni sindacali. E se dovessero rendersi necessarie delle “sforbiciate” non siano fatte solo per tagliare il costo del lavoro, ma siano coerenti con la ristrutturazione di un’azienda per darle la prospettiva che le serve, trovando soluzioni per gli esuberi in termini volontari, incentivati e compensati da assunzioni in un tempo congruo.
E veniamo al Banco: dopo la fusione mancata con Unicredit è arrivato Crédit Agricole: che cosa si aspetta?
Non sono in grado di fare previsioni perché mi pare che certe scelte vengano prese in tempi rapidi. Siamo alla finestra, ma quello che mi preoccupa di più è che se dovesse esserci qualche situazione di evoluzione questo non avvenga con una logica industriale. Ricordo che Crédit Agricole e Creval stanno ancora completando la loro aggregazione, forse non è il momento per studiare un’ulteriore operazione di M&A. Ci sono lavoratori che non possono essere sbattuti in mezzo a situazioni ingestibili. Non bisogna fare le fusioni poggiandosi sulle spalle dei laboratori.
Le aggregazioni che si stanno chiedendo a gran voce rischiano di fare macelleria sociale e allontanare gli istituti di credito dal territorio?
Ridurre il numero delle banche non significa necessariamente tagliare gli sportelli. Ma se si fanno aggregazioni solo per ottenere un taglio dei costi allora non ci siamo. Abbandonare i territori e chiudere le filiali non è solo un problema economico, ma anche di servizi erogati alla clientela. Così si penalizzano i più deboli e la visione del regolatore europeo che chiude efficienza nelle voci di spesa non può essere meramente ragionieristica.
Nostalgia delle Banche Popolari?
No, anche perché la norma che è stata messa in piedi dall’allora governo Renzi ha consentito di superare situazioni che a volte erano puramente autoreferenziali. È vero anche che in certe realtà ha favorito l’abbandono dei territori medesimi, senza compensare adeguatamente. Il che significa che si è depauperata la zona senza ottenere altri risultati positivi.
Veniamo ai rischi sistemici: si attende una crescita degli Npl?
La crisi determinata dalla guerra è diventata un acceleratore per gli incagli, ma è anche vero che la situazione era abbastanza prevedibile e che, per certi aspetti, oggi abbiamo strumenti di monitoraggio che prima non c’erano. Però lo diciamo chiaramente: gli Npl non possono diventare una scusa per le banche per incidere sul costo del lavoro e del personale. Ci sono strumenti adeguati per gestire le sofferenze. E il regolatore europeo deve essere lungimirante e non costringere a soluzioni capestro. Infine, abbiamo paura che la gestione degli Npl possa portare a ulteriori esternazionalizzazioni.
Ma il mondo bancario italiano come sta?
È all’altezza delle sfide, non ha particolari problemi. Ma viene troppo spesso additato come un problema, anche se in realtà ha gestito le varie emergenze meglio degli altri.
Chiudiamo con Generali: il 29 aprile scorso si è chiusa la vicenda dell’assemblea, ma gli animi sembrano ancora piuttosto tesi come dimostra la vicenda dei comitati in cda. Solo che il Leone ha in pancia 60 miliardi di titoli di stato, non si sta giocando col fuoco?
Non voglio entrare nelle logiche gestionali di un’azienda privata. Quello che però mi sento di dire è che non bisogna inseguire una logica di profitto a breve termine invece che avere quella di più ampio respiro. Generali ha già fatto 2,8 miliardi di utili, non si può pensare di cambiare qualcosa in una logica di massimizzazione del profitto