Guerra Russia-Ucraina, anche Generali abbandona Mosca. Stop di Toyota e VW

Da BP a Shell, da H&M ad Apple, e da FedEx a Ikea: la grande fuga del business da Mosca. L'appello del colosso russo del greggio Lukoil: "Fine alla guerra"

di Andrea Deugeni
Philippe Donnet, amministratore delegato di Generali 
Economia
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Il Leone ritira i propri consiglieri in Ingosstrakh ed Europ Assistance chiuderà le proprie attività

Assicurazioni Generali, Toyota e Volkswagen. Il grande business continua a fare i conti con il mercato russo dopo che Mosca e il Cremlino sono finiti nel mirino delle sanzioni incrociate occidentali, restrizioni che secondo Goldman Sachs provocheranno quest’anno un crollo dell’economia della federazione del 7%.

Dopo aver accantonato a marzo scorso, a causa della bocciatura unanime (forte rischio geopolitico e valutario) in comitato strategico di Mediobanca, Caltagirone e Delfin l’ingresso nella compagnia moscovita RESO-Garantia, dossier da due miliardi di euro per cui secondo indiscrezioni che però non trovano conferme il Ceo Philippe Donnet si sarebbe avvalso anche della mediazione dell’ex premier francese Nicolas Sarkozy (dai forti legami in terra russa), Generali ha deciso di cessare le proprie attività nel Paese presieduto da Vladimir Putin. In linea con molte altre aziende italiane che hanno lasciato la Russia come forma di protesta per l'invasione dell'Ucraina.


Il Ceo di Volkswagen Herbert Diess 

Con una nota, la compagnia triestina ha fatto sapere che chiuderà il proprio ufficio di rappresentanza all'ombra del Cremlino, la controllata Europ Assistance smetterà di operare nel mercato della federazione e i rappresentanti del Leone lasceranno i propri incarichi nel board della quarta compagnia assicurativa nazionale Ingosstrakh, di cui detiene una quota di minoranza del 38,5%. Una partecipazione puramente finanziaria che frutta un flusso annuale di dividendi e non collegata ad alcuna joint venture operativa e per cui in passato il Leone aveva anche valutato la salita nel capitale per dirigerne l’operatività.


Il Ceo di Toyota Akio Toyoda

Il congelamento del business in loco da parte delle Generali si aggiunge alle decisioni simili, prese sempre oggi, da altre due Big Corp dei Paesi del G7. Ovvero Volkswagen e Toyota, i primi due gruppi mondiali dell’auto, il primo con passaporto tedesco, il secondo giapponese. La casa teutonica di Wolfsburg ha deciso di fermare la produzione in Russia (nei siti di Kaluga e Nizhny Novgorod) e di bloccare le esportazioni verso il Paese. Scelta seguita a ruota da Toyota che ha fermato le proprie piattaforme nello stabilimento di San Pietroburgo, anche per le difficoltà di approvvigionamento della componentistica.

Anche altri costruttori di automobili giapponesi hanno sospeso o ridotto le proprie attività in Russia, dove hanno però un'esposizione limitata: Mazda, che nel 2021 ha venduto 29mila auto in Russia, cesserà di inviare pezzi alla sua fabbrica di Vladivostok. E tutte le esportazioni di prodotti Honda verso Mosca sono state sospese fino a nuovo ordine a causa della sfida logistica e delle sanzioni internazionali.

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Honda ha esportato appena tremila vetture e due ruote lo scorso anno e non possiede fabbriche. Procede, per il momento, l'attività di Nissan, che dispone di un impianto a San Pietroburgo da cui sono uscite lo scorso anno 45mila veicoli. A seconda dell'evoluzione delle forniture e dell'impatto delle sanzioni, Mitsubishi Motors, che gestisce uno stabilimento vicino a Mosca con il gruppo Stellantis, non ha escluso di sospendere la produzione e le vendite nel Paese.


 

Ha fatto le valigie da Mosca anche il danaroso fondo sovrano norvegese, il più grande del mondo, il cui portafoglio in Russia prima della fine del 2021 conteneva partecipazioni in 51 società con le quote maggiori nei colossi Gazprom, Sberbank e Lukoil, che insieme rappresentavano i due terzi del totale e del valore di circa 27 miliardi di corone (3,03 miliardi di dollari), ma che da gennaio, a causa della guerra in Ucraina e delle sanzioni economiche, si è ridotto del 90%.

Ma da domenica, da quando cioè Usa, Gran Bretagna, Unione Europea e Giappone si sono allineate sul blocco della Russia dalla piattaforma Swift per i pagamenti internazionali, sono state molte le multinazionali che hanno abbandonato il mercato dell’ex Urss.


 

La prima pesante defezione che ha fatto quasi scattare un effetto domino è stata quella di British Petroleum. Il gruppo britannico ha annunciato la vendita del proprio 19% nel capitale (pacchetto che aveva comprato nel 2013) del colosso petrolifero Rosneft che a stretto giro si è visto stracciare un accordo per le esplorazioni in Siberia da parte del competitor statale norvegese Equinor, attivo sempre nel business dell’oro nero. Il gruppo francese del greggio Total ha dichiarato che non finanzierà nuovi progetti in Russia, mentre Exxon Mobil ha iniziato a rimpatriare i dipendenti.


Claudio Descalzi, amministratore delegato dell'Eni

Sempre fra i gruppi energetici, Shell intende tagliare i ponti con Gazprom nella joint-venture nel Gnl. Legami invece già recisi dall'Eni che venderà il proprio 50% nel gasdotto Blue Stream che collega la Russia alla Turchia, business in coabitazione con il gigante del metano guidato da Aleksej Miller.

E le italiane Cdp e Intesa-Sanpaolo, che a fine 2021 avevano aderito al pool di finanziatori con 500 milioni di euro di Arctic Lng 2 di Novatek (progetto da 21 miliardi di dollari per lo sviluppo e la costruzione di un impianto di estrazione di gas naturale in Siberia) intendono, secondo quanto riferito da Reuters, recedere dal contratto. 


 

Mentre tutte le principali compagnie aeree del mondo hanno sforbiciato i voli verso Mosca e il consorzio europeo Airbus e il produttore americano Boeing hanno fatto sapere di sospendere ogni operazione manutentiva in Russia, a cui si aggiunge la sostituzione dei pezzi di ricambio degli aerei del vettore nazionale Aeroflot, i giganti dei trasporti marittimi Msc e Maersk hanno sospeso il trasporto container da e per i porti russi. Le carte di credito Usa Visa e Mastercard hanno bloccato alcuni istituti russi dalla loro rete, tanto che i consumatori russi si son visti rifiutare i pagamenti sui Pos


 

L’austriaca Raiffeisen Bank International sta valutando la possibilità di lasciare la Russia, primo istituto bancario europeo a tagliare i ponti con Mosca. Come Volkswagen e Toyota, anche i produttori automotive Volvo, General Motors, Harley-Davidson e Jaguar Land Rover, hanno interrotto le esportazioni in Russia. La società finlandese di tlc Nokia si è unita alla svedese Ericsson e interromperà le consegne.

La Paramount Pictures ha interrotto la distribuzione di film. La società madre di Facebook, Meta, limiterà l’accesso ai media statali russi Rt e Sputnik sulle sue piattaforme nella Ue, come pure YouTube, gestita da Google (Alphabet), mentre sempre fra i giganti del tech Apple ha interrotto le vendite online e la fornitura di pezzi di ricambio per gli iPhone.

Fra le ultime defezioni anche quella di H&M (la nota catena di abbigliamento svedese ha annunciato di aver sospeso le vendite della propria merce in Russia, seguendo così decine di altre aziende sulla strada della fuga) e Ikea che abbasserà per sempre le serrande dei suoi 17 outlet nel Paese in cui non si può più spedire nulla: la totalità della logistica in entrata e in uscita era affidata a FedEx, Ups e Dhl, che hanno dato forfait all’unisono.

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Insomma, un fuggi fuggi che, assieme a ciò che sta accadendo sui mercati finanziari e mentre la Borsa russa resta chiusa ad oltranza, preannuncia un futuro collasso dell’economia di Mosca. Tanto che Lukoil, il secondo produttore di greggio del Paese, blasonata corporation sullo scacchiere globale, ha lanciato un appello per fermare il conflitto in Ucraina il prima possibile, appoggiando i negoziati anti-escalation. Il business, as usual, deve andare avanti, prima che sia troppo tardi. 

@andreadeugeni

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