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Ucraina e marketing in tempo di guerra, Riccardo Pirrone: “No al peacewashing”
Il "social media manager di Taffo" spiega perché ha deciso di rinunciare al Real Time Marketing, del quale è maestro: "Servono scelte e skill specifiche"
Il social manager di Taffo: “Sull’Ucraina, cambio stile”
Riccardo Pirrone, amministratore della Web Agency romana KiRweb, è diventato famoso come “il social manager di Taffo”, perché grazie alle sue geniali campagne digitali ha fatto conoscere il brand di onoranze funebri del centro Italia su scala nazionale. In realtà, è molto di più di questo. Autentico punto di riferimento del settore della comunicazione digitale, nonché autore del libro “Real Time Marketing – La guida-bomba”, spiega ad affaritaliani.it perché sull’Ucraina ha deciso di non utilizzare questo potentissimo strumento di comunicazione.
La comunicazione in tempo di guerra
La scelta di Pirrone è in controtendenza rispetto al settore. Oltre alla rievocazione dello storico spot “Ukraina!” per l’atlante geografico de Il Corriere della Sera (ne abbiamo raccontato la genesi in questo articolo), è impossibile non notare il proliferare di iniziative da parte di aziende molto diverse tra loro, ma tutte dirette a prendere posizione sulla guerra in corso. La compagnia telefonica Iliad ha deciso di azzerare il costo delle chiamate da e per l’Ucraina, per favorire il contatto con chi ha amici e parenti bloccati sotto le bombe russe. Lasciare le zone di guerra non è facile, quindi Wizz Air ha messo a disposizione 100.000 posti gratuiti sui suoi voli continentali in partenza dai paesi confinanti. Il mondo dello sport ha fatto la sua parte, isolando la Russia attraverso l’esclusione dalle competizioni internazionali e la rinuncia ai rubli di Gazprom, sponsor divenuto quantomai ingombrante anche a causa dei riflessi energetici della situazione. Apple ha sospeso le vendite online in Russia, ma tra le numerose scelte di questo tipo, ha sorpreso più di tutte quella di Pornhub, sito erotico che ha bloccato l’accesso ai suoi utenti russi, ai quali al posto dei video a luci rosse viene proposto un messaggio pro-Ucraina. Una scelta che però a Pirrone non è piaciuta: “Solitamente Pornhub comunica molto bene, ma stavolta no: l’ironia va benissimo se ha una finalità sociale, che le persone possono apprezzare. In questo caso, invece, può risultare di cattivo gusto. Anche boicottare un prodotto perché viene dalla Russia, come hanno fatto altri, serve a poco, se non a farsi pubblicità. Se il Real Time Marketing è d’aiuto in qualche modo, ad esempio promuovendo una raccolta fondi, ben venga. Se invece è solo ricerca di visibilità, allora non funziona perché non porta vantaggio al brand”.
I maestri del Real Time Marketing
Il Real Time Marketing non è una novità del periodo bellico e nemmeno di questi ultimi tempi. Da diversi anni è uno strumento efficacemente utilizzato da molte aziende per cavalcare il news-flow dell’attualità a fini promozionali. Una delle aziende che meglio ha saputo sfruttare questo approccio è Ceres. Tra le varie campagne sfornate dall’azienda produttrice di birra, ha riscosso molto successo quella del 2015, che prendeva spunto dai danni provocati dai tifosi del Feyenoord alla Barcaccia del Bernini in Piazza di Spagna, in occasione di una trasferta di Europa League contro la Roma: “Se non sapete bere, statevene a casa”. Il calcio, per la sua popolarità, offre spesso spunti di questo tipo. In occasione degli Europei della scorsa estate, la Royal Mail inglese aveva scelto di pubblicizzarsi con un pallone da calcio incartato per la spedizione e lo slogan “It’s coming home”, che prevedeva la vittoria finale del Paese che si picca di aver inventato il football. Poi però ha vinto l’Italia e Poste Italiane ha genialmente replicato ai colleghi d’Oltremanica, con una pubblicità che correggeva “Home” in “Rome”, riprendendo uno sberleffo popolarissimo sui social.
Anche su questo tema, il lavoro di KiRweb per Taffo rappresenta un benchmark, avendo colpito l’immaginario collettivo con campagne ispirate da fatti di cronaca come le campagne No Vax, gli incendi dolosi e gli incidenti stradali. Sull’Ucraina, però, Pirrone ha scelto una linea completamente diversa: “Su un argomento come questo, che genera un mood di paura e sofferenza, io ho scelto di non fare Real Time Marketing, né per Taffo, né per gli altri brand che seguo. Anzi, al contrario ho modificato alcuni piani editoriali perché alcuni post previsti per il periodo di carnevale in seguito allo scoppio della guerra sarebbero apparsi inopportuni. È una scelta che i comunicatori devono saper fare, adeguando i toni in base a quello che succede, esattamente come accade in televisione”, spiega ad affaritaliani.it.
Brand journalism, brand activism e le relative skill
Un aspetto fondamentale di questo approccio è il coraggio di prendere posizione su temi divisivi, come ad esempio quello dei vaccini anti-Covid. Quando si sceglie questo strumento, bisogna avere il coraggio di scontentare qualcuno, ottenendo in cambio una più forte penetrazione valoriale nel proprio target. La comunicazione aziendale moderna non punta più sulla qualità del prodotto, bensì sulla capacità di coinvolgere i propri potenziali clienti su un piano più profondo ed anche emotivo. È la strategia del “brand activism”, che spinge le aziende a fare scelte coraggiose, in alcuni casi connaturate al proprio business (come ad esempio l’ambientalismo di Patagonia), ma in altri decisamente meno scontate. Assumere una posizione sbagliata o, peggio, contraddetta dai comportamenti effettivi, può avere un effetto letale sull’immagine dell’azienda. Questo vale, a maggior ragione, dopo due anni veramente disruptive che, tra pandemia di Covid e il ritorno della guerra in Europa, rendono il mercato decisamente più volatile, ma anche più sensibili a valori sociali ed etici che un tempo erano secondari, rispetto al mero profitto.
Come scegliere le campagne e i messaggi da mandare
Perché le scelte siano efficaci, nonché coerenti con i reali valori del brand, bisogna affidarsi a professionalità adeguate. Sempre più aziende stanno infatti arruolando figure innovative, proprio a questo scopo. In primo luogo brand journalist, ovvero giornalisti che sappiano usare gli strumenti tipici di questo mestiere per la comunicazione aziendale, ma anche consulenti specializzati sugli aspetti più socio-politici, grazie ai quali selezionare gli argomenti su cui puntare e le posizioni da assumere in merito. Non a caso, il “brand activism” fa parte del più ampio filone della “politicizzazione del marketing”, che ha portato, ad esempio, un’azienda popolare come Nike scegliere un testimonial divisivo come Colin Kaepernick, il giocatore di football che ha dato il via all’inginocchiamento come forma di protesta contro le ingiustizie sociali e poi contro la presidenza di Donald Trump. Bisogna, però, affidarsi a chi questi temi li conosce bene, come spiega Pirrone: “La CSR ormai è diventata attivismo ed è responsabilità delle aziende agire sul campo, sul piano sociale ed etico, ma anche su temi più leggeri. La cosa che mi preoccupa è che molto spesso non c’è dietro un’analisi, invece ogni brand deve farsi delle domande serie: quali sono i valori e i desideri del nostro target? Davvero abbiamo costruito una community, prima di esporci su un particolare tema? Altrimenti è solo greenwashing, pinkwashing, rainbowwashing o, con un neologismo che potremmo coniare in questo caso, peacewashing. Spesso si tende a supportare delle cause senza degli atteggiamenti fattuali coerenti, quindi c’è sicuramente bisogno della professionalità di chi sa come fare un’analisi del mood e del sentiment delle persone, per capire qual è il messaggio da dare. Ma soprattutto bisogna prima capire su quali temi il brand deve esporsi: farlo su tutto è sbagliato, perché ormai i brand sono come le persone e quindi devono parlare di ciò che conoscono e di ciò in cui credono. Altrimenti suonano fasulli e diventa controproducente”.
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