La guerra, che bel business. Ecco tutti gli interessi “collaterali”

La guerra è semplicemente una crisi generata dall'uomo. Un'analisi sulle potenziali linee di business in cui poter investire per capitalizzare questo scenario

di Enrico Verga
Economia

Dalla guerra nascono opportunità di business

La guerra è spesso percepita come una tragedia: la guerra è semplicemente una crisi, generata dall’uomo. Come diceva il premio Nobel per la pace Obama (vincitore del Guinness per civili uccisi tramite bombardamenti di droni): ogni crisi è un’opportunità.

La guerra è un’opportunità di business immensa che, con l’accrescersi dei modelli capitalisti e liberisti, è divenuta una realtà che si integra con differenti filiere: industria pesante, leggera, media, politica etc… Di fatto, semplificando un poco, una guerra, se ben valorizzata, è un evento da cui si può trarre beneficio in molti modi. Esiste il comprensibile tema della sua valorizzazione. Non tutti possono valorizzare la guerra e le sue molteplici ricadute. Tuttavia, avendo una visione di insieme delle differenti variabili che possono essere sfruttate, è possibile comprendere come trarre beneficio da una guerra. Ovviamente qualcuno deve pagare la guerra, ma questo è tema per i giornali di cronaca, non per gli affari. Dividiamo le possibilità di valorizzazione per facilità di accesso e competenza.

Guerra, tra investitori dilettanti e traffico di armi

Il primo gruppo di potenziali investimenti sono quelli che possono essere accessibili in modo diretto, da parte del singolo investitore retail. Sono aziende per lo più quotate in borsa, accessibili sia direttamente sia parte di fondi o etf. Il fatto che siano facilmente abbordabili non esclude tuttavia la necessità di dover fare i compiti e studiare le dinamiche geopolitiche che influenzano le performance delle aziende.

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Il primo modo di valorizzare la guerra è, ovviamente, investire nelle aziende che si occupano di difesa e che vendono armi ai paesi implicati direttamente in una guerra.

Possiamo suddividere le aziende belliche in produttori di armi leggere (armi di solito usate dalla fanteria) e armi pensanti: queste ultime di norma vendute tramite licenze specifiche emesse dai governi. Stante la classifica di marzo 2023 della rivista FAIR (Foreign Affairs Insights & Review) la top ten degli stati che vendono (danno licenza di vendere) armi pesanti sono nell’ordine: Usa, Russia, Francia, Cina, Germania, Italia, Regno Unito, Spagna, Sud Corea, Israele. Di questi stati la maggioranza sono nella alleanza difensiva chiamata Nato.

Se vogliamo considerare, le più grandi aziende belliche dove investire i nomi non mancano, grazie alla classifica (2022) di Defense news possiamo mappare le prime 20 aziende di cui il fatturato dipende ( spesso in modo totale) dal budget della difesa di uno o più stati. In Usa abbiamo Lockheed Martin, Raytheon Tech (famosa per i Javelin, un blockbuster in Ucraina), Boeing, Northrop Grumman (famosa per i global Hawks che spiano Putin), General Dynamics, L3Harris Tech, HII, Leidos.

Anche i cinesi non scherzano con AICC, CSSCL, CNIGCL, CETG, CSIGC, CASIC, CASTC. Gli Inglesi restano nella top 2° con Bae System. Noi italiani teniamo la linea con Leonardo; la Francia con Thales, Airbus, Dassault. Per correttezza si deve sottolineare che le aziende cinesi sono conglomerati statali con crescenti interessi nella difesa ma con uno zoccolo duro nella produzione di mezzi ad uso civile.

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Tuttavia considerando la crescente spesa cinese per la difesa, soprattutto aero navale, è plausibile che una crescente parte del fatturato di questi gruppi sarà per produzioni militari. Esistono anche fondi dove investire se non si vuole scommettere su una singola azienda. Di recente sono nati anche due ETF che, seppur in modo semplificato, permettono l’accesso a questi investimenti in modo potenzialmente più facile: VanEck defense e Ucits Etf Nato. 

La “privatizzazione della guerra” spiana la strada alle aziende di servizi

I militari devono mangiare, essere trasportati, formati, accuditi. Nel vecchio sistema bellico, diciamo sino alla fine della seconda guerra mondiale, questi servizi erano gestiti direttamente da specifiche unità militari. Con la privatizzazione delle guerre dell’era Bush Jr, lo sveltimento delle procedure di appalto e la crescente burocratizzazione dipartimenti della difesa (dal Pentagono in poi) i servizi alle armate sono stati privatizzati.

Oggi esistono un numero consolidato di aziende che offrono servizi di ogni tipo per assistere i militari occidentali nelle missioni di pace. La maggioranza di queste aziende sono americane o, quanto meno, nate in America. Essendo lo stato che è più attivo in ambito di missioni di pace ha permesso a questo sotto settore di emergere. Tra i nomi più rilevanti possiamo menzionare ci sono Kbr, V2X, Fluor, Aecom, SAIC, Jacobs, Leidos, Pae.

Guerra, è boom dell’IT per le nuove guerre “tecnologiche”

Per quanto la guerra sia ancora una cosa fisica, tra umani, la crescente complessità del campo di battaglia richiede una sovrastruttura di telecomunicazioni per lo più digitali. Dal progetto di Rumsfeld, deceduto sostenitore di una America con eserciti privatizzati, il Pentagono ha compreso che un supporto IT serve.

Oggi giorno, come dimostra la guerra ucraina, la presenza di copertura satellitare è fondamentale. A questo livello si deve soprapporre quello del cloud computing per processare ogni secondo petabyte di dati provenienti da ogni fonte: truppe sul campo, sintetici sul campo (droni di varia natura), algoritmi generativi, satelliti, sensori autonomi o integrati in mezzi pesanti etc.

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Per processare tutti i dati il Pentagono (l’entità che ha il più grande budget mondiale, ad oggi 860$ miliardi per il 2023) si serve di numerosi fornitori. Aws Amazon (tra i suoi clienti anche tutti i servizi segreti americani come CIA e NSA), Microsoft, Google, General Dynamics Corp, Booz Allen Hamilton Holding Corp, Dell Technologies Inc, Oracle Corp, Accenture PLC.

Per quanto la guerra implichi un dispiegamento di forze e mezzi sul campo esiste un modo parallelo, in parte sinergico, per vendere armi, soprattutto armi pesanti. La recente guerra in Ucraina offre uno spaccato di questa politica di difesa. Prima dello scoppio della guerra i paesi della Nato europei erano perplessi all’idea di aumentare le spese in armamenti.

Con lo scoppio della guerra le aziende belliche, in particolare americane, sono riuscite a piazzare ordini miliardari a clienti Nato: dai 116 carri armati MBT Abrams americani di seconda mano (ma tenuti bene!) venduti ai polacchi ai lanciamissili HIMARS (ampliamente pubblicizzati durante la guerra ucraina) comprati da Lituania, Estonia e Latvia. La guerra ucraina ha migliorato le performance di vendite se consideriamo che nel 2021 (prima della guerra) il governo americano approvò 14 rilevanti vendite di armi ai membri NATO, per una cifra totale intorno ai 16$ miliardi. A fine 2022 erano state approvate 22 vendite per un totale di oltre 28$ miliardi.

Muoversi e investire in aziende non quotate è sempre più sfidante. Ovviamente servono capitali piuttosto importanti ma non bastano i soldi. Molte aziende elencate in seguito operano in ambienti e contesti nazionali sfidanti, con pratiche operative e approcci a volte peculiari.

 La guerra come corsa alla supremazia per l’indipendenza energetica

C’è da considerare che la guerra è un evento che, in un mondo globalizzato, non interessa più il singolo territorio di uno o più stati. La guerra oggi diviene sempre più una crisi che può interessare differenti filiere di estrazione di materie prime minerali, alimentari, idriche, energetiche. Partendo da questo presupposto possiamo comprendere come, osservando quali sono le materie prime esportate dallo stato in guerra, oppure che transitano da esso, si può investire nelle aziende che, in altre parti del mondo, vendono gli stessi prodotti oppure sono influenzare da filiere “danneggiate” da una carenza di materie prime.

Ogni guerra ha le sue materie prime. Le guerre al terrorismo, in particolare quella in Iraq, colpi il mercato petrolifero. L’Iraq aveva nazionalizzato le sue aziende petrolifere. Fortunatamente, dopo la guerra in Iraq di Bush jr, tutte le maggiori compagnie petrolifere americane - come riporta il Wsj - si incontrarono con Dick Cheney per discutere i loro interessi in Iraq.

Ovviamente il settore estrattivo, nel contesto di una guerra civile, terrorismo, missione di pace etc.. implica che le miniere devono essere difese dai mercenari (leggi di seguito). Investire in siti minerari sfidanti può portare un buon ROI ma si deve avere stomaco forte, capitali importanti e soprattutto una proiezione sul sito (mercenari, esperti geologi, macchinari, minatori) per valorizzare il sito al meglio, comprendendo che la finestra temporale potrebbe essere limitata.

Nell'area di Montepuez, zona contesa con i terroristi di Al-Shabaab, il governo regolare assegnò diritti di estrazione mineraria Montepuez Ruby Mining (MRM); posseduta in maggioranza (ai tempi) dalla inglese Gemfields (al 75%) e la  Mozambican Mwriti Limitada (al 25%). Ci furono tensioni e tumulti tra le aziende regolari e i locali che si erano improvvisati minatori illegali. Tuttavia i siti minerari, pur riconoscendo il rischio alla sicurezza, erano potenzialmente ricchi.

Guerra, investire sui mercenari “stile Wagner”

La recente crisi ucraina ha fatto conoscere al popolo la violenza dei mercenari della Wagner. In vero questa organizzazione è la più giovane del settore. Guadagnare investendo in aziende che noleggiano mercenari è in effetti più complesso. Ci sono due soluzioni principali con cui valorizzare, assunto di avere le risorse adatte (soldi e contatti) questo tipo di aziende.

La prima soluzione è investire, tramite soluzioni di private equity, nelle aziende stesse acquistando parte dell’azienda. L’alternativa, forse più borderline, è investire nelle attività civili che queste aziende partecipano. Nel caso della Wagner, per citare un esempio recente, la azienda ha partecipazioni in “work for equity” in differenti attività estrattive in Africa e medio oriente. Evro Polis, compagnia petrolifera siriana, ha offerto il 25% dei proventi alla Wagner, in cambio dei servizi mercenari focalizzati alla liberazione dei siti petroliferi occupati illegalmente da Isis (e ora occupati da eserciti regolari di altre nazioni).

Le miniere d'oro del Car (Central African Republic ) sono un'altra industria dove vale la pena investire, assunto di avere bastanti coperture assicurative occidentali e locali. Oltre alla giovane Wagner possiamo ricordare le inglesi della Olive Group, Einys, Aegis Defence Services, G4S, rUBICON International Services, International Intelligence Limited, Sandline Internation. 

Poi ricordiamoci gli americani di Constellis Holdings in precedenza conosciuta come Backwater e posseduta dal fondo Apollo. A loro si aggiungono MPRI, Inc., MVM, Inc. (tra i suoi clienti CIA e NSA), Northbridge Services Group (con uffici anche in Ucraina), Unity Resources Group. A questi gruppi principali si aggiungono i tedeschi della Asgaard – German Security Group, la STTEP registrata nel paradiso fiscale di Gibilterra (che afferisce al Regno Unito), i peruviani della Defion Internacional e i polacchi della European Security Academy.

Quest’ultimo metodo d’investimento implica un livello di intelligence Osint elevata a cui si dovrebbe aggiungere un’intelligence “informale” supportata da unità sul campo, software avanzati per prevedere le singole variazioni, e un livello di capitali tale da sfruttare ogni singolo mutamento in tempi rapidi. A questo si deve aggiungere un network di contatti in differenti settori.

Guerra, perché investire nelle compagnie assicurative

Investire nelle “conseguenze” di una guerra implica un approccio globale che faccia leva su tutti i sistemi e sotto sistemi che vengono influenzati indirettamente da una crisi sia essa diretta come una guerra o indiretta (il caso della Evergiven a Suez). In ambito bellico la logistica di terra o marittima può essere soggetta a evoluzioni: nuove rotte per evitare le zone di conflitto (più sicure ma a costi maggiorati che ricadranno sul consumatore finale), necessità di maggiori coperture assicurative, aumento nei servizi di sicurezza (i mercenari di cui sopra). In questi settori si possono valutare differenti investimenti a favore o contro (shortare in gergo finanziario) la/e aziende che sono influenzate dal conflitto.

Se consideriamo il mondo assicurativo possiamo analizzare il recente caso dello stop all’accordo di cereali russo-ucraino. Il presidente Zelensky ha dichiarato che le navi partiranno egualmente. Alle navi (tutte battenti bandiera turca) che potrebbero trasportare le commodity ucraine rischiando di essere colpite si aggiungono le navi neutrali che entrando nel mar nero rischiano di essere colpite per errore dai due belligeranti. In questo senso le compagnie assicurative hanno subito capitalizzato l’opportunità aumentando i premi assicurativi e mantenendo quelli già firmati ma valutando ogni singolo caso. Investire in queste aziende può essere un’opportunità.

Il trasporto dei cereali ucraini, tuttavia, permette di analizzare anche il secondo caso: logistica. Come spiegato di recente dal Generalo Morabito, la maggioranza di cereali usciti dall’Ucraina sono finiti in Cina, Turchia e Europa. Una minima parte è finita ai paesi poveri (tramite il WFP). Il beneficio economico maggiore è stato per i broker turchi che hanno poi rivenduto il grano a compratori europei a prezzi competitivi (ma con un discreto margine) rispetto ai costi dei cereali prodotti nelle stesse nazioni europee. Per valorizzare questa opportunità tuttavia si devono possedere contatti con il settore del private equity turco, oppure al settore del brokerage di navi, spesso localizzato in nazioni europee che hanno attive pratiche di riciclaggio di denaro o sono paradisi fiscali: Svizzera, Regno Unito, Cipro, Jersey etc..

 Guerra, cos’è il mercato parallelo e perché conviene

Il mercato parallelo è un concetto spesso sfuggente ma nelle situazioni di crisi, quali la guerra, è un tipo di commercio particolarmente florido. Consideriamo uno stato di guerra economica come quella dichiarata dall’Occidente alla Russia. Lo stato euroasiatico non ha possibilità di esportare direttamente i suoi beni negli stati occidentali. L’alternativa risulta quindi esportare (o importare) i beni o le materie prime tramite stati terzi, diciamo casse di compensazione. Identificare questi stati, e le aziende che offrono questi servizi, richiede notevole conoscenza delle regole del gioco di ogni stato.

Per valorizzare questo tipo di mercato si deve avere un approccio legato a investimenti diretti (comprare il prodotto) oppure valorizzare i sistemi di trasporto. C’è da tener presente che, seppur in maggioranza questo tipo di valorizzazione è legale, potrebbe essere percepita negativamente da banche e istituzioni finanziarie che partecipano al blocco commerciale (nel caso Eu vs Russia). Se consideriamo per esempio il petrolio russo, complesso da acquistare dopo le sanzioni, il metodo più efficace per comprarlo, raffinato, è tramite le raffinerie indiane e cinesi.

Le raffinerie ovviamente applicano uno prezzo maggiorato per il prodotto raffinato a cui si aggiunge uno sconto che i venditori russi riconoscono; una sorta di “sconto riciclaggio” per ripulire la materia prima russa. Nell’esempio specifico valorizzare i guadagni extra di queste aziende implica la capacità di partecipare direttamente nell’azienda tramite acquisto di quote della società. A marzo, per esempio, le società di consulenza Vortexa e Kpler hanno stimato che circa 43 milioni di barili di petrolio russo ha raggiunto la Cina nel solo mese.  Le raffinerie cinesi più attive in questo mercato sono PetroChina and Sinopec. Lo sconto medio per acquisto di questo petrolio russo variava tra i 7 e i 13$ a barile.

Una seconda soluzione per valorizzare il mercato parallelo è la proprietà e relativo noleggio dei vettori di trasporto, di norma navali. Si stima che la Russia abbia noleggiato e/o comprato oltre 400 petroliere. Queste unità, spesso vecchie e destinate alla rottamazione, sono state affittate o vendute a prezzo premium alle compagnie petrolifere russe. Una volta disattivato il trasponder queste navi sono divenute parte della flotta fantasma. La complessità di valorizzare questa soluzione sta nel fatto che il noleggio o la vendita di queste navi deve avvenire tramite prestanome o aziende che si occupano di brokerage registrate in paradisi fiscali oppure in nazioni “neutrali” quali il Pakistan etc.

Il mondo del sottosopra: fioriscono i traffici illegali

L’ultimo gruppo di soluzioni per valorizzare una guerra è quello che sfrutta in modo illecito le necessità o le risorse umane che vengono rigettate dal conflitto (di norma i profughi di guerra). CI sono differenti sistemi, per quanto tutti illegali e sconsigliati da valorizzare. La vendita di armi leggere da e per un conflitto è un settore altamente lucrativo. Le due decadi di guerre al terrorismo permisero a molti mercanti di armi di acquisire armi di fabbricazione americana e rivenderle sui mercati del terzo mondo.

La stessa guerra ucraina ha permesso a molti mercanti di acquisire da militari ucraini lancia missili e altri armamenti avanzati che sono poi finiti sul mercato medio orientale, come lamentato dai vertici israeliani, o africani.

Il secondo modo di valorizzare la guerra, guardando alle risorse umane, è l’obbligare i profughi, di solito giovani donne, alla schiavitù sessuale o lavorativa. Nella guerra civile in Bangladesh, dove Facebook è stato dichiarato "complice" a causa della capacità della piattaforma di divenire uno strumento per disseminare odio sociale tra le fazioni in crisi, le donne Rohingya sono state vendute come prostitute in Bangladesh.

La schiavitù può essere valorizzata anche per obbligare adolescenti e bambini a lavorare in fabbriche illegali, spesso legate al settore moda e design, industrie che, per la lavorazione dei loro prodotti, richiedono spesso forza lavoro umana. Il caso dei bambini siriani, in fuga dalla guerra e schiavizzati nelle fabbriche turche del lavoro illegale è un caso da manuale.

Ultima attività per valorizzare le risorse in ambito bellico è il furto o razzia di beni, di valore o materie prime, al fine di rivenderli illegalmente. In Afghanistan la vendita di materie prime estratte da cave illegali fu una voce importante  per molti signori della guerra dell’epoca. Nel 2003 il museo di stato di Baghdad, in Iraq, venne assalito dai civili che lo depredarono dei suoi manufatti antichi; non è chiaro se al saccheggio parteciparono anche militari americani. Dopo solo 20 anni alcuni di quei manufatti sono stati restituiti dal governo americano.

Ovviamente non è dato di sapere se il furto venne commissionato in modo strutturato da ufficiali dell’esercito americano o un caso isolato perseguito da singoli individui. Ciò nonostante i reperti ci misero 20 anni per tornare a casa ed è plausibile che la loro vendita abbia fruttato un discreto guadagno per avidi collezionisti occidentali con pochi scrupoli.

 

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