Istat, il sistema imprese recupera solidità ma è allarme assunzioni

Circa due terzi delle imprese sono propense ad assumere ma fanno fatica a trovare nuove figure tecniche con competenze adatte

Economia
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Istat, le imprese recuperano solidità.  Una impresa su due investirà in sostenibilità 

A fine 2021 il sistema delle imprese italiane recupera solidità, la cassa integrazione è in calo, ma resta forte per i settori in crisi. Mentre sul lato assunzioni le aziende sono propense ad assumere, ma faticano a trovare (circa per due terzi) figure con competenze adatte.

E' questo il quadro diffuso dall'Istat nella terza edizione della rilevazione speciale "Situazione e prospettive delle imprese dopo l’emergenza sanitaria Covid-19", che aggiorna le informazioni raccolte nelle precedenti edizioni misurando comportamenti e strategie delle imprese a quasi due anni dall’inizio della pandemia.

Oltre l’80% delle imprese, che rappresentano più del 90% del valore aggiunto, spiega l'Istat, prevedono di trovarsi in una situazione di completa (41,3%) o parziale (39,5%) solidità entro la prima metà del 2022. Poco più del 3% si giudica invece gravemente a rischio.

Inoltre, il 9,4% delle imprese ha aumentato il personale nella seconda metà del 2021 mentre un altro 12,1% sta assumendo. Ma tra queste quasi i due terzi segnalano difficoltà a reperire le competenze necessarie. Per quasi un quarto delle imprese i fattori di rischio per la crescita sono l’indebolimento della domanda e gli ostacoli nell’acquisire gli input produttivi. 

Istat, il recupero del fatturato è più diffuso nell'industria che negli altri settori 

Nel 2021 il recupero di fatturato è più diffuso nell’industria. Nel valutare l’andamento del fatturato registrato tra giugno e ottobre 2021 rispetto agli stessi mesi del 2020 - spiega l'istituto - le imprese si dividono in tre gruppi quasi equivalenti per numerosità: il 34,2% dichiara una riduzione delle vendite, il 33,7% un andamento stabile e il 32,1% un aumento.

Quest’ultimo gruppo rappresenta però in termini occupazionali il segmento più ampio (45,1% rispetto al 26,6% di imprese in perdita e al 28,4% con fatturato stabile) e contribuisce a produrre la metà del valore aggiunto nazionale (49,8% contro il 22,8% delle imprese con fatturato in contrazione e il 27,4% di quelle con risultati stabili).

L’industria in senso stretto e le costruzioni presentano una ripresa più diffusa: le imprese con un fatturato in aumento sono rispettivamente il 41,2% e il 37,3% mentre scendono al 30,1% nel commercio e al 28,1% negli altri servizi. In questi due segmenti del terziario sono anche più frequenti i casi di riduzione del fatturato, 37,4% e 36,5% a fronte del 29,8% dell’industria in senso stretto e al 25,2% delle costruzioni. 

Nei servizi una maggiore incidenza di imprese con fatturato in calo si rileva nei settori delle trasmissioni radiofoniche e televisive (60,8%), case da gioco (58,1%), trasporto areo (55,0%), riparazione di computer e altri beni personali (49,8%), servizi postali e di corriere (46,7%), finanziari e assicurativi (46,1%) e nel comparto della ristorazione (44,2%).

Si confermano inoltre le criticità riscontrate nei primi periodi della pandemia per le agenzie di viaggio (39,3%), le attività sportive e di divertimento (38,9%), le attività artistiche (36,9%), il settore pubblicitario (36,6%), cinematografico e musicale (35,5%).

Nel settore industriale soltanto il comparto tessile (43,7%) e quello alimentare (38,2%) presentano una quota di imprese in perdita superiore alla media complessiva (34,2%) e all’insieme del settore (29,8%). Nell’industria si conferma la maggiore dinamicità delle imprese esportatrici: tra giugno e ottobre del 2021 il 51,8% di questo insieme fa registrare un aumento del fatturato, il 20,7% presenta una variazione stabile e solo il 27,6% segna un calo.

A livello territoriale, le imprese del Nord-est, che dichiarano un aumento di fatturato nel 36,4% dei casi, e quelle del Nord-ovest (34,5%) mostrano una maggiore capacità di recupero rispetto alle imprese del Mezzogiorno (27,7%) e del Centro (30,1%), dove si registra una quota più elevata di imprese in perdita (rispettivamente il 36,9% e il 37,9%), dovuta in parte alla maggiore incidenza del settore del commercio e dei servizi. 

Nella seconda metà del 2021 il 16% delle imprese con più di 3 addetti ha fatto ricorso a misure quali la Cassa integrazione guadagni (Cig) o altre equivalenti quali il Fondo integrazione salariale (Fis). Come atteso, l’utilizzo di tali strumenti è risultato molto meno diffuso rispetto al 2020: nella fase di sospensione dell’attività produttiva durante il primo lockdown, ovvero a marzo 2020, oltre il 70% delle imprese vi aveva fatto ricorso e alla fine dell’anno l’incidenza risultava pari al 42%.

Come nel 2020 - spiega l'Istat - anche a giugno 2021 sono state le imprese più grandi a utilizzare più frequentemente questo tipo di strumento (21%), contro il 17,3% delle medie, il 16,9% delle piccole (10-49 addetti) e il 15,7% delle micro-imprese. 

L'utilizzo della cassa integrazione è più frequente nelle imprese degli altri servizi e dell'industria in senso stretto 

A livello settoriale, l’utilizzo della Cig è risultato più frequente nelle imprese degli altri servizi (17,6% delle imprese) e dell’industria in senso stretto (16,8%) e più contenuto in quelle del comparto delle costruzioni (9,0%).

In particolare, la maggiore diffusione ha riguardato alcune attività economiche ancora penalizzate dalla crisi, quali le attività dei servizi di agenzie di viaggio, tour operator, servizi di prenotazione e attività connesse (74,6%), attività artistiche, sportive e di intrattenimento (33,9%) e, per quel che riguarda la manifattura, nelle unità dell’abbigliamento (42,9%) e delle calzature (44,2%).

Le imprese delle costruzioni e, in misura di poco inferiore, dell’industria in senso stretto, hanno inoltre mostrato una maggiore propensione all’aumento del personale a tempo determinato o indeterminato, rispettivamente il 12,2 e il 12,8%. (

Negli stessi comparti - si legge ancora nel report dell'Istat - la quota di chi ha dichiarato di averlo ridotto è molto più bassa (5,8% nelle costruzioni e 6,5% nell’industria) mentre la riduzione delle ore lavorate ha riguardato appena il 3,7% delle imprese del settore edilizio.

La diffusione di politiche di aumento del personale è stata significativa in tutte le classi dimensionali di tali comparti ma è risultata maggiore tra le imprese di medie dimensioni (più del 20%). All’opposto, le scelte di ridimensionamento del personale e/o delle ore lavorate sono state decisamente più frequenti tra le imprese degli altri servizi. Quelle del commercio hanno presentato una propensione relativamente bassa sia all’aumento sia alla riduzione del personale.

L’indagine che misura i comportamenti e le strategie delle imprese a quasi due anni dall’inizio della pandemia - tiene a precisare l'Istat - è stata condotta a fine autunno, in una fase in cui la curva dei contagi era ancora contenuta e non erano state ancora annunciate nuove misure di contrasto all’epidemia potenzialmente rilevanti per le scelte delle imprese.  

Lo smart working è ancora diffuso nei servizi e nelle imprese più grandi

La diffusione delle modalità di smart working o telelavoro risulta in calo rispetto alla rilevazione effettuata nell’autunno precedente, che aveva colto una fase in cui il riacutizzarsi dell’emergenza sanitaria aveva determinato misure di contenimento e comportamenti sfavorevoli al lavoro in presenza.

La quota di imprese che segnalano l’utilizzo di modalità di lavoro a distanza è risultata del 6,6%, a fronte dell’11,3% registrato nella precedente indagine (oltre il 20% tra marzo e maggio 2020). Le differenze settoriali restano molto ampie e piuttosto stabili nel tempo. L’attività di lavoro a distanza è risultata più frequentemente utilizzata dalle imprese dei servizi e nelle industrie di grandi dimensioni. 

Nel dettaglio, nel settore dei servizi quasi un’impresa su dieci dichiara di farvi ricorso (14% a fine 2020). All’interno del comparto una quota elevata si rileva nei servizi di informazione e comunicazione (34,3%), attività professionali, scientifiche e tecniche (24,4%), istruzione (19,0%) e attività finanziarie e assicurative (17,4%).

Nell’industria, la quota di imprese che si avvalgono di tale forma di lavoro è risultata limitata (5,8%) e di gran lunga inferiore a quella osservata a fine 2020 (11,6%). Nel commercio e nelle costruzioni l’incidenza di imprese in smart working è scesa da circa il 7% di ottobre 2020 a meno del 4% nel 2021.

Nel complesso il ricorso a queste tipologie di lavoro, pur in calo in tutte le classi di addetti, è tanto più frequente con l’aumentare della dimensione d’impresa: dichiarano di utilizzare il lavoro a distanza il 4,4% delle micro-imprese e il 10,9% delle piccole mentre la quota raggiunge rispettivamente il 31,4% per le medie e il 61,6% per le grandi. La differenza si osserva in tutti i principali comparti: la quota di grandi imprese che dichiarano di avvalersi dello smart working è del 65% nell’industria e nelle costruzioni, a fronte del 50,8% nel commercio e del 61,9% negli altri servizi.

Circa la metà delle imprese rivolgerà i propri investimenti alla sostenibilità ambientale

Nel corso del 2022, sei imprese su dieci prevedono investimenti in capitale umano e formazione, il 49,9% con intensità modesta, una su dieci con alta propensione. Circa la metà delle imprese rivolgerà i propri investimenti alla sostenibilità ambientale, il 41,4% con modesta, l’8,4% con alta intensità. È quanto rileva l'Istat nella terza edizione della rilevazione speciale 'Situazione e prospettive delle imprese dopo l’emergenza sanitaria Covid-19'.

Le altre aree di investimento sono reputate meno interessanti: investirà in capitale fisico il 41,3% delle unità (il 7,4% con alta intensità), in tecnologia e digitalizzazione il 42,3% (8,7%), in ricerca e sviluppo il 31,9% (4,5%), in internazionalizzazione il 16,1% (2,7%). L’intensità degli investimenti - scrive l'Istat nel report - mostra una forte eterogeneità dimensionale: la prevalenza di imprese che effettuano investimenti tende a essere molto più alta fra le grandi rispetto alle dimensioni aziendali più ridotte. Ciò è particolarmente evidente nella ricerca e sviluppo (70,0% delle grandi contro 27,6% delle micro), nella tecnologia e digitalizzazione (82,8% contro 36,8%) e nell’internazionalizzazione (44,1% contro 12,4%).

Considerando il settore di attività economica, le imprese dell’industria in senso stretto mostrano una maggiore tendenza a investire: in questo comparto si riscontra infatti la più alta incidenza di unità che investono, con modesta o alta intensità, in tutte le aree, a eccezione delle risorse umane e formazione e della sostenibilità ambientale dove sono le costruzioni a registrare la quota più alta (rispettivamente 70,2 e 59,8% contro 63,0 e 56,7% dell’industria in senso stretto).

La frequenza delle varie tipologie di investimento è generalmente bassa tra le imprese del commercio e degli altri servizi. La maggiore prevalenza di investimenti in internazionalizzazione si registra nella manifattura (29,8%), quella connessa agli interventi di sostenibilità ambientale nei settori dell’energia (65,9%) e della gestione dei rifiuti (75,3%).  Considerando congiuntamente le risposte delle imprese sulle diverse aree di investimento si possono definire tre tipologie di imprese in base alla loro propensione a investire (bassa, media o alta)

Quasi due imprese su tre (64,7%, circa 5,2 milioni di addetti, poco più del 30% del valore aggiunto complessivo) mostrano una bassa propensione a investire mentre solo il 5,1% (con 2 milioni di addetti e circa il 20% del valore aggiunto) è incluso nella classe ad alta propensione. L’effetto dimensionale è forte: un’alta propensione riguarda il 24,1% delle grandi e il 18,8% delle medie imprese, solo il 9,6% delle piccole e il 3,3% delle micro.

A livello settoriale, una propensione media all’investimento si riscontra solo nell’industria in senso stretto, con circa il 50% di imprese, contro meno del 40% nelle costruzioni, poco più del 30% nel commercio e negli altri servizi.

Combinando le informazioni su propensione all’investimento e grado di solidità, risulta che le imprese totalmente o parzialmente solide hanno anche una propensione all’investimento media o alta: il 34,4% delle solide (30,4% delle parzialmente solide) è a media propensione, il 6,6% (4,4%) ad alta. Le imprese in condizioni di rischio grave o parziale mostrano invece una maggiore prevalenza nella classe a bassa propensione (il 74,4% delle prime e l’84,3% delle seconde). 

Arrivano segnali positivi sulle assunzioni, ma resta difficile trovare professionalità adeguate

Segnali positivi sulle assunzioni, ma difficoltà per le professionalità adeguate. Lo afferma l'Istat nella terza edizione della rilevazione speciale “Situazione e prospettive delle imprese dopo l’emergenza sanitaria Covid-19”. Il 13,6% delle imprese che hanno dichiarato di non aver aumentato il personale dell’impresa (il 12,1% del totale delle imprese con almeno 3 addetti) - spiega l'Istat - ha poi affermato di essere, alla fine dello scorso anno, in fase di acquisizione di risorse.

Anche in questo caso l’incidenza è risultata più elevata tra le imprese dell’industria in senso stretto e delle costruzioni (rispettivamente 17,0 e 17,3%), mentre ha interessato il 10,8% delle imprese del commercio e il 12,8% degli altri servizi. In particolare, oltre al comparto della costruzione di edifici ed ingegneria civile, si osserva una frequenza di assunzioni relativamente più elevata in settori come la chimica e farmaceutica, in quello della meccanica, nella produzione di software e la consulenza informatica. 

Una quota assai significativa di imprese dell’industria e delle costruzioni, che hanno assunto personale a tempo determinato o indeterminato o hanno dichiarato di essere in fase di acquisizione di risorse umane, ha segnalato difficoltà a trovare le competenze necessarie: ciò riguarda più del 76% delle unità nel settore delle costruzioni e il 66,4% in quello dell’industria. Il problema, peraltro, tocca il 55,0% delle imprese del commercio e il 66,3% di quelle degli altri servizi. Nel complesso, le difficoltà nell’acquisizione di personale sono segnalate più frequentemente nelle unità di minore dimensione: rispettivamente, dal 63,9% e il 66,7% delle micro e piccole imprese, dal 58,2% delle medie e dal 50,1% delle grandi.

Tra i profili mancanti vengono indicati con più frequenza quelli relativi alla logistica e produzione, segnalati soprattutto da imprese di medie e grandi dimensioni. Anche i profili relativi alle funzioni tecnico-ingegneristiche di supporto alla produzione sono indicati soprattutto dalle medie e grandi imprese mentre tra le micro risultano relativamente più frequenti difficoltà nel reperire risorse nell’ambito dell’area organizzativo-gestionale e nelle vendite, marketing e comunicazione.

Infine, poco meno del 10% delle imprese ha dichiarato di aver registrato una quota di dimissioni maggiore a quella osservata nel periodo pre-pandemia, soprattutto tra le grandi imprese (23,0% tra le unità con più di 250 addetti).  A livello settoriale un’incidenza comparativamente elevata di dimissioni si riscontra soprattutto nel trasporto aereo, nei servizi di agenzie di viaggio e tour operator e nei servizi dell’assistenza sociale. 

La sfida del Recovery Plan 

Le misure che costituiscono il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (Pnrr) sono un fattore di sostegno percepito da una parte importante ma non prevalente delle imprese, almeno sull’orizzonte temporale del primo semestre del 2022. 

Nel 2021, come nell'anno precedente - spiega il dossier - il fattore di sostegno che le imprese segnalano con maggiore frequenza è la ripresa della domanda interna. Il 61,0% delle unità produttive (con circa 11,7 milioni di addetti) le assegna un’importanza elevata mentre solo il 16,9% ritiene che non abbia rilevanza alcuna. E’ considerata più rilevante dalle imprese industriali (69,1%) mentre lo è relativamente meno tra le micro imprese (58,2%).

I crediti bancari assistiti da garanzia pubblica, coerentemente con la ridotta criticità legata alle fonti di credito e finanziamento nell’operatività delle imprese, sono considerati molto rilevanti dal 18,5% delle imprese, principalmente piccole (19,8%) e nell’industria (20,3%). D’altra parte, a fronte di un 38,1% che assegna a questa forma di sostegno un’importanza modesta, il 43,4%  non la considera in alcun modo rilevante, soprattutto fra le grandi (55,6%) e negli altri servizi (48,6%). 

La rilevanza della domanda estera come fattore di traino dell’attività produttiva ha una chiara connotazione dimensionale e settoriale. Nel complesso, poco più del 15% delle imprese le assegna un’importanza elevata e circa due terzi non la considera rilevante; per un terzo delle imprese dell’industria in senso stretto (34,2% delle manifatturiere) è invece un sostegno molto importante. Le misure che costituiscono il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (Pnrr) sono un fattore di sostegno percepito da una parte importante ma non prevalente delle imprese, almeno sull’orizzonte temporale del primo semestre del 2022.

Per ciascuno dei capitoli del Pnrr direttamente considerati, circa la metà delle imprese non li considera rilevanti come traino dell’attività. Il giudizio riguarda sia le misure legate alla transizione ecologica (il 47,7% le reputa di modesta o elevata importanza) sia quelle inerenti le infrastrutture e la mobilità sostenibile (47,1%) che hanno evidentemente un orizzonte di sviluppo più lontano.

Più della metà delle imprese assegna una modesta (36,0%) o elevata (17%) rilevanza alle misure legate a digitalizzazione, innovazione, competitività e cultura. Per tutte le tipologie di misura Pnrr, l’importanza (modesta o elevata) tende a crescere all’aumentare della dimensione aziendale, soprattutto nei capitoli legati a digitalizzazione, innovazione, competitività e cultura e alla rivoluzione verde e transizione ecologica.

A livello settoriale, una minore rilevanza si associa alle imprese attive nel terziario non commerciale: più della metà considera non rilevanti i diversi capitoli del Pnrr. Le misure legate a digitalizzazione, innovazione, competitività e cultura sono percepite come importanti (in misura modesta o elevata) principalmente dalle imprese dell’industria in senso stretto (57,4%) e del commercio (56,5%); quelle connesse a rivoluzione verde e transizione ecologica da unità produttive dell’industria in senso stretto (52,3%) e delle costruzioni (56,4%). Infine, gli interventi su infrastrutture e mobilità sostenibile hanno una rilevanza significativa per il 49,6% delle imprese dell’industria in senso stretto, il 52,0% delle costruzioni e il 49,7% del commercio. 
 

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