L'uomo, il lavoro e lotta cieca alla crescita
Viviamo nel perenne ultimo chilometro di una maratona senza tempi di recupero
La "stanchezza cronica" è lo status quo di una generazione che ha capito che oltre la fatica del lavoro non c’è null’altro
È tutto “troppo” per me. E lo dico senza timore, ammettendo la mia difficoltà a gestire una complessità schiacciante. Troppo lavoro, troppe informazioni, troppa fatica, troppi dialoghi surreali, troppe ore perse per cose che ritengo inutili. Troppo impegno per bisogni inautentici.
E rivedo lo stesso dramma ogni giorno negli occhi delle persone che incontro, che sembrano volerti dire “basta, sono stanco. Io mi fermo qui.” A volte sembra che ogni conversazione contemporanea sia, a qualche titolo, una conversazione sulla stanchezza. Viviamo nel perenne ultimo chilometro di una maratona senza tempi di recupero.
Se per anni la stanchezza cronica è stata un assurdo inno all’efficenza (“guarda quello, è sempre impegnatissimo, stanno andando alla grande”), oggi è lo status quo di una generazione che ha capito che oltre la fatica non c’è null’altro. Non c’è niente di niente. Non ci sarà un premio e forse nemmeno una condizione migliore a cui aspirare. Siamo tutti vittime di una grande bugia: quella di tenere duro sempre e comunque, anche quando sembra senza senso, anche quando siamo stremati.
Come possiamo rivoluzionare il nostro mondo se siamo esausti? La stanchezza è stata a lungo una dipendenza collettiva socialmente incoraggiata in cambio di ricompense che l'economia non era da tempo più in grado di promettere a nessuno. Ed è anche il risultato dell’aver infilato la nostra vita privata negli interstizi fra una giornata lavorativa e l’altra, ai margini del tempo.
Cosa rimarrà alla fine di tutto questo? Come è stato possibile, ad un certo punto, che le nostre intere esistenze siano state fagocitate dal lavoro, dalla frenesia, dalla lotta cieca alla crescita?
Corsa che ha anche devastato l’unico pianeta abitabile che conosciamo. Ormai nessuno ha più tempo per nulla. Neppure di meravigliarsi, di inorridirsi, di commuoversi, di innamorarsi, di stare con se stessi. Le scuse per non fermarsi a chiederci se questo correre ci fa più felici sono migliaia e, se non ci sono, siamo bravissimi a inventarle.
Non credo abbia nemmeno senso questa corsa a cui ci è stato chiesto di tornare dopo lo stop forzato della pandemia. Come se non fosse successo nulla; come se, in quello squarcio, non avessimo intravisto una verità limpida: che la vita è altro dal profitto, dalla conquista, dalla competizione. La vita è anche prendersi cura: degli altri, di se stessi, del luogo in cui viviamo. Non è vero che “funziona così e basta”, c’è sempre un’alternativa: quella che funziona per noi.
E se non c’è, occorre crearla. Lo penso quando cammino nella magia del bosco dietro casa e so che quella condizione è solo momentanea, perchè poi “devo” tornare al lavoro, tornare al chiuso, nel traffico, a produrre. Ma “devo” cosa? Io sono qui di passaggio, come tutti gli altri. Morirò come tutti e che io sappia non ho una seconda possibilità. Io ci ho messo troppi anni ad arrivarci e mi sono già bruciato parte della vita. Ma siamo tutti ancora in tempo.