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Economia
L'uomo, il lavoro e lotta cieca alla crescita

La "stanchezza cronica" è lo status quo di una generazione che ha capito che oltre la fatica del lavoro non c’è null’altro

È tutto “troppo” per me. E lo dico senza timore, ammettendo la mia difficoltà a gestire una complessità schiacciante. Troppo lavoro, troppe informazioni, troppa fatica, troppi dialoghi surreali, troppe ore perse per cose che ritengo inutili. Troppo impegno per bisogni inautentici.

E rivedo lo stesso dramma ogni giorno negli occhi delle persone che incontro, che sembrano volerti dire “basta, sono stanco. Io mi fermo qui.” A volte sembra che ogni conversazione contemporanea sia, a qualche titolo, una conversazione sulla stanchezza. Viviamo nel perenne ultimo chilometro di una maratona senza tempi di recupero.

Se per anni la stanchezza cronica è stata un assurdo inno all’efficenza (“guarda quello, è sempre impegnatissimo, stanno andando alla grande”), oggi è lo status quo di una generazione che ha capito che oltre la fatica non c’è null’altro. Non c’è niente di niente. Non ci sarà un premio e forse nemmeno una condizione migliore a cui aspirare. Siamo tutti vittime di una grande bugia: quella di tenere duro sempre e comunque, anche quando sembra senza senso, anche quando siamo stremati.

Come possiamo rivoluzionare il nostro mondo se siamo esausti? La stanchezza è stata a lungo una dipendenza collettiva socialmente incoraggiata in cambio di ricompense che l'economia non era da tempo più in grado di promettere a nessuno. Ed è anche il risultato dell’aver infilato la nostra vita privata negli interstizi fra una giornata lavorativa e l’altra, ai margini del tempo.

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