"Made in Immigritaly", dalla Fai-Cisl il primo rapporto sul lavoro straniero

Il ministro Lollobrigida: "Abbiamo anche bisogno di lavoratori che provengono da altre nazioni, ma devono essere lavoratori regolarmente arrivati in Italia"

di Redazione
Francesco Lollobrigida
Economia

"Made in Immigritaly", il primo rapporto sui lavoratori immigrati nell'agroalimentare

È stato presentato al Cnel, in presenza di rappresentanti del governo e del parlamento, ricercatori, sindacalisti, il volume “Made in Immigritaly. Terre, colture, culture”, primo Rapporto sui lavoratori immigrati nell’agroalimentare italiano. Commissionata dalla Fai-Cisl, la ricerca è stata realizzata dal Centro Studi Confronti ed è curata da Maurizio Ambrosini, Rando Devole, Paolo Naso, Claudio Paravati

Edito da Agrilavoro e Com Nuovi Tempi, il volume “Made in Immigritaly. Terre, colture, culture” esamina in oltre 500 pagine i modi in cui il lavoro immigrato viene gestito in contesti specifici e analizza i diversi profili del fenomeno, inclusi i meccanismi virtuosi di cooperazione e integrazione locale che si stanno realizzando sui luoghi di lavoro.

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Sono stati raccolti dati, analisi e proposte e approfonditi anche nove casi studio territoriali: l’area di Saluzzo e la frutticoltura, la pianura della bassa bergamasca, specializzata nella produzione lattiero-casearia, la Val di Non, con la produzione delle mele, la produzione di asparagi tra bassa padovana e Polesine e l’area vitivinicola della Valpolicella, l’area modenese per la lavorazione delle carni e quella romagnola in particolare la produzione avicola, Castel Volturno, il foggiano con la raccolta del pomodoro e, infine, la “fascia trasformata del ragusano” e le coltivazioni in serra.

Emerge che non c’è filiera del made in Italy agroalimentare in cui il lavoro migrante non assuma un ruolo rilevante o insostituibile. “Questa ricerca – ha detto Onofrio Rota, Segretario Generale della Fai-Cisl – ha il merito di rovesciare una narrazione dominante: quella che vorrebbe ridurre il fenomeno migratorio a costante emergenza sociale o a necessarie braccia da lavoro da confinare alla subalternità. I dati, le analisi e le storie raccolte restituiscono così uno spaccato di vita quotidiana di quei lavoratori e lavoratici di origine straniera che ogni giorno contribuiscono alla crescita del nostro Pil, con un agroalimentare italiano che nel 2023 ha superato 600 miliardi di fatturato e 64 miliardi di export”.

Il Presidente del Cnel Renato Brunetta, che ha accolto l’iniziativa invocando un minuto di silenzio per le vittime dell’incidente alla centrale idroelettrica di Suviana, “il settore agroalimentare italiano è ricco di eccellenze di cui andiamo fieri, ma dietro l'eccellenza del made in Italy c'è la cattiva coscienza sul ruolo degli immigrati. Servono flussi che prevedano formazione e selezione all'origine, secondo la logica della bilateralità. Una forza lavoro invisibile non è un fattore di crescita, né civile né economica, l’opacità non serve a nessuno”, ha aggiunto Brunetta.

Gli immigrati che lavorano regolarmente in Italia, si legge nel rapporto, sono stimati in 2,4 milioni circa, più del 10% degli occupati. In agricoltura, però, il loro contributo è certamente più rilevante di questo valore medio: gli stranieri occupati nel settore sono quasi 362.000 alla fine del 2022, e coprono il 31,7% delle giornate di lavoro registrate. Di certo i dati istituzionali sono distorti, per l’impatto concomitante del lavoro non registrato e delle registrazioni fittizie finalizzate ad accedere ad alcuni benefi­ci sociali; ma offrono un’indicazione orientativa per cogliere la portata del contributo dei lavoratori immigrati all’agroindustria italiana e dei problemi di tutela che devono fronteggiare.

Le principali provenienze nazionali registrate nei dati istituzionali sono tuttora, nell’ordine: Romania, Marocco, India, Albania e Senegal. Le nazionalità dei rifugiati non compaiono nelle prime posizioni, e in generale l’Africa subsahariana è sottorappresentata. I lavoratori rumeni diminuiscono: da quasi 120.000 nel 2016 a 78.000 nel 2022; marocchini, indiani e albanesi crescono di qualche migliaio di unità: rispettivamente +7.009, +7.421 e +5.902. Sostanzialmente stabili i tunisini, passati da 12.671 a 14.071; mentre in termini relativi risulta più marcata la crescita dei senegalesi, che sono quasi raddoppiati, passando da 9.526 a 16.229 (+6.703), e molto sostenuta quella dei nigeriani, passati da 2.786 a 11.894 (+9.108). Aumentano anche i maliani, da 3.654 a 8.123, e i gambiani, da 1.493 a 7.107. Le fonti statistiche, dunque, cer­tificano sì una crescita dell’occupazione degli immigrati subsahariani nel settore, non tale, tuttavia, da avvalorare la tesi di una sostituzione delle componenti da più tempo insediate. 

Il problema di base riscontrato dai ricercatori è che accanto a tante buone pratiche di inclusione e realizzazione nell’agroindu­stria nazionale, per molti immigrati rimane vivo lo spettro dell’invisibilità: “Il passaggio dalla cittadinanza economica, anche dove è stata faticosamente conquistata, a una cittadinanza sociale e politica compiuta – ha detto Maurizio Ambrosini, tra i curatori della ricerca e professore di Sociologia delle migrazioni presso l’Università di Milano – rimane ancora irrisolto”.

“Nonostante la stabilità delle presenze di im­migrati – ha aggiunto Paolo Naso, altro curatore della ricerca e docente di Scienza politica all’Università Sapienza di Roma – il Paese continua a vivere una sorta di schizofrenia tra la narrazione dell’immigrazione come invasione onerosa e socialmente rischiosa da una parte, e un sempre più evidente bisogno di manodopera immigrata dall’altra”.

“Made in Immigritaly – ha commentato Claudio Paravati, Direttore del Centro Studi Confronti e tra i curatori del rapporto – mette al centro le persone: chi sono, cosa fanno, in cosa sperano. Per noi questo è anche un progetto editoriale che riflette il nostro impegno storico per un’informazione libera, per dare voce a chi voce non ne ha, per uno studio libero per comprendere il mondo, per i diritti, per un cambiamento visibile e concreto nella società, per portare avanti e sostenere quelle istanze di giustizia che non trovano un luogo opportuno di ascolto e ricezione”.

Alla presentazione della ricerca è intervenuto anche il Ministro Lollobrigida: “Abbiamo anche bisogno di lavoratori, esaurita la richiesta interna, che provengono da altre nazioni, ma devono essere lavoratori regolarmente arrivati in Italia, perché questo è il vero investimento. Programmare, come ha fatto questo Governo, anche con flussi triennali, l’arrivo e la formazione. Dobbiamo mettere in condizione le persone che vengono qui di essere trattate con dignità, con pari reddito rispetto agli altri, avendo le stesse opportunità”, ha detto il Ministro.

Per il Segretario Generale della Cisl Luigi Sbarra, che ha concluso l’evento, “regolarizzazioni, fissazione di quote d’ingresso legali, misure come quelle contenute nel Decreto Cutro sono passi significativi, ma bisogna andare oltre: va costruita una Dublino II, con un sistema comune europeo che garantisca accoglienza, sicurezza e integrazione, con canali di ingresso regolari che permettano, anche attraverso la bilateralità, di incrociare domanda e offerta di lavoro permettendo alle imprese di disporre del necessario fabbisogno di lavoratori ben formati e qualificati, contrattualizzati e retribuiti. L’inclusione multiculturale – ha aggiunto il leader della Cisl – è un investimento per il futuro che non può conciliarsi con sfruttamento, lavoro irregolare, ghettizzazione, caporalato, da combattere su tutti i fronti: si dia piena attuazione alla Legge 199 del 2016 e si rendano protagoniste le rappresentanze sociali e il mondo del lavoro dentro le aziende nel solco della partecipazione”.

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