Mediobanca, dagli anni d'oro di Enrico Cuccia agli intrecci azionari con Del Vecchio e Caltagirone: la storia
La storia della più grande banca d'affari del Paese, dalla sua fondazione ad oggi, con l'Ops di Mps respinta da Piazzetta Cuccia
Mediobanca: l’eredità di Cuccia e l'influenza di Del Vecchio e Caltagirone
Quello tra Mediobanca e Monte dei Paschi di Siena ha tutto il sapore di un matrimonio combinato, di quelli dove la sposa viene trascinata all’altare controvoglia. Ma Piazzetta Cuccia ha già detto il suo chiaro e tondo “no”: l’offerta da 13,3 miliardi di euro avanzata da Mps è stata respinta senza esitazione. Nel comunicato ufficiale, Mediobanca non ha usato mezzi termini: "L'offerta è da ritenersi ostile e contraria agli interessi di Mediobanca".
Un rifiuto che non stupisce. La banca d'affari milanese, da sempre baluardo della propria indipendenza, non ha mai accettato di buon grado ingerenze esterne. E non inizierà certo ora, di fronte a un'offerta "dannosa per il valore dell'istituto". Ma per capire perché Mediobanca alza i muri, bisogna ripercorrere la sua storia, fatta di manovre strategiche, potere e una gestione spietata degli equilibri finanziari del Paese.
Parlare di Mediobanca significa raccontare oltre mezzo secolo di capitalismo italiano. Fondata nel 1946 da due giganti della finanza, Raffaele Mattioli ed Enrico Cuccia, la banca nasce con un obiettivo chiaro: finanziare la ripresa industriale italiana nel dopoguerra. All’epoca, il credito a medio e lungo termine era un buco nero nel sistema finanziario, e Mediobanca colma perfettamente nel vuoto, sostenendo le imprese e, al contempo, creando il proprio impero. Le tre principali banche italiane – Banca Commerciale Italiana, Credito Italiano e Banco di Roma – si spartiscono le quote azionarie, ma il vero potere lo esercita Cuccia, il gran burattinaio della finanza italiana.
Se c’è una figura che ha modellato la finanza italiana del dopoguerra, è sicuramente quella di Enrico Cuccia. Sotto la sua guida Mediobanca si trasforma ben presto in un'autentica business bank, diventando il fulcro delle grandi operazioni finanziarie e industriali italiane. Negli anni '60, l'istituto si distingue per operazioni di salvataggio cruciali, come quella della Montecatini, il colosso chimico italiano in crisi, che viene poi fuso con Edison per dar vita a Montedison, il primo grande conglomerato industriale del Paese. La banca è anche protagonista nel gestire i rapporti tra le partecipazioni statali e i gruppi privati.
Nel 1971 Mediobanca assume un ruolo chiave nella scalata di Eugenio Cefis, allora presidente dell'Eni, alla stessa Montedison. L'operazione, orchestrata con grande abilità da Cuccia, rafforza ulteriormente il potere della banca nel settore industriale e segna uno dei momenti più emblematici della sua storia. Sempre negli anni '70, i rapporti molto stretti tra Cuccia e Giovanni Agnelli fanno sì che l'istituto milanese diventi la banca di fiducia del gruppo Fiat. Mediobanca diventa così cruciale in operazioni strategiche, come la cessione della Snia, azienda chimica controllata da Montedison, che nel 1980 passa alla Fiat.
Mediobanca è anche l'architetto silenzioso di molte altre operazioni fondamentali per l'apparato industriale italiano. Oltre alla gestione dei collocamenti sul mercato interno ed estero per aziende come Pirelli, Italcementi e Assicurazioni Generali, la banca partecipa direttamente al capitale di società strategiche, consolidando il suo potere.
Il primo vero scossone arriva nel 1982, quando Mediobanca entra in rotta di collisione con l’IRI (Istituto per la Ricostruzione Industriale) guidato da Romano Prodi, che mal digerisce l’autonomia di Cuccia. L’IRI, attraverso le banche pubbliche, ha la maggioranza del capitale di Mediobanca, e tenta di metterci sopra il cappello. Cuccia si oppone a qualsiasi influenza politica sull’istituto. Per reazione, l'IRI impone alle banche pubbliche di non rinnovargli il mandato di direttore generale. Tuttavia, il banchiere mantiene la carica di consigliere d'amministrazione, continuando a esercitare la sua influenza sulla banca.
Nel 1988, Mediobanca viene privatizzata, sancendo la fine del controllo pubblico. Cuccia diventa presidente onorario, mentre Vincenzo Maranghi assume il ruolo di amministratore delegato. Con la privatizzazione nasce il patto di sindacato tra i soci privati, volto a garantire stabilità nell'azionariato e a preservare l'autonomia dell'istituto.
Nel 1993 entra in vigore la seconda grande legge bancaria del dopoguerra, che rimuove l'obbligo di specializzazione del credito. Fino a quel momento, Mediobanca aveva goduto di un monopolio de facto nel finanziamento a medio-lungo termine, ma la nuova normativa consente alle altre banche di entrare in questo mercato. Questo minaccia la profittabilità dell’istituto, ma allo stesso tempo rafforza il suo ruolo nelle grandi privatizzazioni degli anni ’90. Telecom Italia, Enel, Bnl e Banca di Roma passano sotto la regia di Mediobanca.
Nel 2000 muore Cuccia, e le tensioni interne si acuiscono. Vincenzo Maranghi, delfino di Cuccia, prende le redini e difende Mediobanca con le unghie e con i denti, fino a quando, nel 2003, viene spinto alle dimissioni, entrando nel mirino di Bankitalia, che critica la governance dell'istituto e sollecita un cambio di rotta. Maranghi lo fa senza parlare, senza chiedere nulla: un addio in perfetto stile Mediobanca. Arriva così una nuova governance con Alberto Nagel e Renato Pagliaro, che cambia rotta: riduzione delle partecipazioni storiche (FIAT esce dal radar) e maggiore focus sulle operazioni di mercato aperto. Inoltre, entra nel segmento bancario retail con la creazione di CheBanca!, puntando su canali digitali innovativi. Il progetto si rivela un successo: nel primo anno di attività, CheBanca! raccoglie 5,3 miliardi di euro e apre 170.000 conti. Oggi, la banca conta 865.000 clienti e una raccolta di 25 miliardi.
Negli ultimi anni, il patto di sindacato nato con la privatizzazione del 1988 si sgretola progressivamente. Pirelli è la prima a uscire dall’accordo nel 2017, vendendo la sua quota dell'1,79%. Nel 2018 segue Italmobiliare, che cede lo 0,98%, pur mantenendo una presenza indiretta tramite FinPriv. Lo stesso anno, UniCredit, uno dei principali azionisti, decide di uscire. Con il patto sceso sotto il 25% delle quote, il vincolo decade automaticamente il 1° gennaio 2019.
A novembre 2019, UniCredit cede l'8,4% di Mediobanca, ma la mossa viene compensata dall’ingresso di Leonardo Del Vecchio. L’imprenditore milanese, attraverso la sua holding Delfin, inizialmente acquista il 7,52% del capitale, per poi salire al 9,89%, diventando così il primo azionista dell’istituto. Negli anni successivi, ottiene il via libera della Bce per incrementare la sua partecipazione fino al 19,8%, ma attraverso questa partecipazione non può esercitare il controllo su Mediobanca, nominando per esempio i vertici o indirizzando le scelte.
LEGGI ANCHE: "Ops su Mediobanca? Mps preda di azionisti avventati. Dietro la scalata un rapporto irrisolto con la politica"
Negli ultimi dieci anni, Mediobanca, ha anche svolto un ruolo centrale nelle quotazioni in Borsa di alcune delle aziende più prestigiose d'Italia, come Ferrari, e i marchi di lusso Brunello Cucinelli, Ferragamo e Moncler. Inoltre, ha affiancato la famiglia Benetton e Blackstone nell’acquisizione e delisting della holding infrastrutturale Atlantia, per un valore complessivo di 56 miliardi di dollari (debito incluso). Questa è stata la più grande operazione di privatizzazione dell’anno, superiore persino all’acquisizione di Twitter da parte di Elon Musk per 44 miliardi di dollari.
D'altra parte, ad oggi l'ops di Mps su Mediobanca è segnata dai forti intrecci azionari tra Delfin e Caltagirone. Come evidenziato da Piazzetta Cuccia, nella stessa Mediobanca, Delfin detiene il 20% e Caltagirone il 7% (sulla base dello stacco del dividendo di novembre 2024). In Mps, Delfin è il primo azionista privato con il 10%, mentre Caltagirone ha il 5%, oltre a possedere il 5% di Anima Holding, che a sua volta detiene il 4% di MPS. In Generali, Delfin ha una partecipazione del 10% e Caltagirone del 7%. La presenza di questi stessi azionisti in Mps, Mediobanca e Generali, nell’ambito di un'offerta interamente in azioni, potrebbe generare una disomogeneità negli interessi rispetto al resto della compagine azionaria, come sottolineato da Mediobanca.
Già in passato c'erano stati dei conflitti, quando tra il 2019 e il 2022, Del Vecchio e Caltagirone hanno aumentato progressivamente la loro partecipazione in Mediobanca, criticando la dipendenza della banca dai profitti derivanti dalla sua quota del 13% in Generali, la maggiore compagnia assicurativa italiana. Mediobanca, Delfin e Caltagirone detengono infatti quote rilevanti di Generali. Nel 2022, i due magnati hanno lanciato una campagna da azionisti attivisti, opponendosi alla conferma dell’amministratore delegato di Generali proposto da Mediobanca. Il loro piano è fallito quando il 55,9% degli azionisti di Generali ha supportato il consiglio uscente, mentre solo il 41,7% ha appoggiato la proposta di Caltagirone.
Il mercato bancario sta attraversando un periodo di cambiamenti e fusioni, ma Mediobanca non è una banca come le altre. Ha costruito la sua solidità sull’indipendenza e sul controllo rigoroso delle proprie partecipazioni. Accettare l'offerta di Mps significherebbe forse snaturarsi? Spiegando così il rifiuto deciso e senza indugi dei suoi vertici. Gli investitori avranno l’ultima parola, ma una cosa è certa: se mai ci sarà un’unione tra Mediobanca e Mps, non sarà di certo consensuale. E Piazzetta Cuccia, come sempre, venderà cara la pelle.