Smart working ridotto a telelavoro non garantito. Il giro di vite di Brunetta
La bozza sarà discussa all'Aran il 22 settembre. Ne parlano con Affari il giuslavorista Giuliano Cazzola e il segretario generale Flp Marco Carlomagno
Il lavoro in presenza perché un Paese che cresce ha bisogno di una Pa operativa al massimo è sempre stato il Brunetta-pensiero. Ed ecco che ora che la stagione contrattuale entra nel vivo è arrivato il momento che il ministro per la Pa ha tanto atteso e cioè quello di dare un giro di vite allo smart working. Almeno questo è ciò a cui punta la bozza che sarà discussa con i sindacati all’Aran all’interno del Ccnl Funzioni centrali il prossimo 22 settembre. Sono troppe infatti nel documento le rigidità fissate per il lavoro agile che ancora viene concepito come telelavoro (o lavoro da remoto). Con buona pace dell’impostazione per obiettivi e risultati data dall’ex ministro per la Pa Fabiana Dadone, provando in qualche modo a trasformare in un’occasione la sfavorevole condizione lavorativa che la pandemia e il lockdown avevano creato. Ma si sa, cambiano i Governi e, nella più classica tradizione italica, si ricomincia dalla casella di partenza, come nel gioco dell’oca. Al di là delle contrapposte tifoserie - si può essere favorevoli e contrari a questa modalità di lavoro -, sta di fatto però che la bozza presenta delle rigidità spaziali e temporali inspiegabili.
Lo smart working tornerà ad essere regolato in base agli accordi individuali, ma il testo pare studiato ad hoc per scoraggiarlo. Vediamo perché. Innanzitutto, chi lavora da fuori e non ha cartellini da timbrare si ritrova soggetto a forme di controllo legate a fasce temporali molto rigide: operatività contattabilità e inoperatività. Proprio su queste ultime due emergono i primi problemi. Partiamo dalla contattabilità: la fascia prevede fino a 13 ore in cui il lavoratore può essere raggiunto sia al telefono che via mail. “Ma la contattabilità – spiega ad Affaritaliani.it Marco Carlomagno, segretario generale Flp – non può che avvenire all’interno dell’orario di lavoro. Non è aggiuntiva, altrimenti si chiamerebbe reperibilità e verrebbe pagata come straordinario”.
Lo stesso diritto alla disconnessione o inoperatività è fissato in 11 ore consecutive, dalle 22 alle 6 del mattino. E pure su questo ci sarebbe da aprire una riflessione dal momento che contrasta a rigor di logica con la natura stessa dello smart working. Un lavoro per obiettivi implica pure una completa autogestione degli orari. A tal proposito, Affaritaliani.it ha contattato il giuslavorista Giuliano Cazzola: “La direzione di marcia intrapresa da Brunetta sullo smart working nella Pa è quella giusta – ha detto subito –. Anche perché non dimentichiamo che è stato adottato sostanzialmente per rispondere alle esigenze sanitarie che hanno orientato le decisioni del Governo nella prima fase della pandemia. Detto ciò, credo sia corretta l’idea delle fasce, è opportuno avere uno schema a livello nazionale, ma è chiaro anche che si tratta di un aspetto che andrà negoziato poi a livello decentrato”.
Al di là dei limiti temporali fissati nella bozza, non mancano, tuttavia, neppure quelli spaziali. Cosa accade infatti al lavoratore che torna in ufficio? Ecco che in tal caso si torna all’impostazione classica - con gli orari, il cartellino da timbrare e pure gli straordinari retribuiti – che cozza ancora una volta con lo smart working. In teoria, un dipendente in modalità lavoro agile dovrebbe poter nell’arco di una giornata anche pensare di fare un salto in ufficio o comunque di organizzare le sue ore lavorative in parte a casa, in parte in sede e in parte – perché no? - al parco. Tutto ciò invece in questa bozza non sembra previsto, quasi che il testo fosse figlio di una visione troppo romanocentrica. Si dà il caso che se in una città come Roma, viste le distanze, sia più complicato poter switchare nello stesso giorno tra casa e ufficio, non accada lo stesso invece in altre realtà più piccole. Senza considerare tra l’altro che proprio una maggiore elasticità spaziale sarebbe importante per molti lavoratori che magari tra le mura domestiche non hanno sempre condizioni lavorative ottimali.
Insomma, è la filosofia di fondo di Palazzo Vidoni che pare sbagliata, o per lo meno fuori focus, se il focus voleva essere il lavoro agile. La bozza, infatti, tutto fa fuorché offrire un regime più flessibile. Guardando a queste rigidità, ha gioco facile quindi chi afferma che il testo sembra scritto per scoraggiare lo smart working. O chi, come il sindacalista Carlomagno, sostiene che “alla fine della fiera, se non ci saranno aggiustamenti, saremo di fronte a un telelavoro mascherato, ma senza i vantaggi che quest’ultimo offre, dagli orari definiti, che sono poi quelli dell’attività svolta in presenza, fino alla dotazione di strumentazioni che il lavoro agile non contempla. A questo punto – sottolinea il segretario Flp – è meglio il telelavoro. Almeno è più garantito”.
Per tacere infine del tetto del 15 per cento fissato per lo smart working. Su questo aspetto non nasconde i suoi dubbi Cazzola: “Se c’è una cosa che credo non sia opportuna è fissare un tetto. Io, infatti, lascerei fare di più alle singole amministrazioni e soprattutto valuterei in base ai monitoraggi. Prendiamo l’Inps, ad esempio, che ha messo in smart working più del 90 per cento del personale. Alla fine, però, i risultati, al netto di alcuni ritardi, sono stati positivi. Basta guardare ai casi di cassa integrazione trattati che mediamente erano 800 mila l’anno e sono diventati 6,4 milioni”.
“Se si considerano i lavoratori con figli minori di tre anni o con disabilità e i lavoratori disabili la soglia del 15 per cento è già raggiunta – ragiona poi Carlomagno –. Non c’è spazio per altri. Ma allora siamo di fronte a una bozza che pare concepita solo con una funzione assistenziale. Dovrebbe essere un input per innovare e migliorare la produttività, però così sembra fatta per dissuadere le persone dal lavoro agile e, inevitabilmente, per impedire che nella Pa si lavori per obiettivi che, poi, sono i servizi ai cittadini”.
Ed è proprio il segretario Flp a tirare le somme e a dire: “Involontariamente si ribadisce l'assimilazione, errata, del lavoro agile al telelavoro e si regolamenta il telelavoro, pur citandolo come fattispecie separata. Sia sul piano spaziale che temporale. Intanto non si concepisce che una giornata di lavoro agile possa contemplare anche dei passaggi in ufficio e del lavoro svolto in ufficio, ovviamente senza timbratura. C'è una assoluta dicotomia tra lavoro agile e lavoro in presenza: ma il lavoro agile è anche in presenza. E di conseguenza si nega che il lavoro in presenza possa seguire la logica dei cicli, fasi e obiettivi. Per cui io lavoro per obiettivi solo da remoto, appena rientro in ufficio tornano timbrature e straordinari. Assurdo”, conclude.