Tessuti naturali, artificiali e sintetici: ecco le scelte più sostenibili
Sentiamo ripetere di continuo: "Acquistare meno, acquistare meglio". Ma queste due esigenze possono coincidere? Il report
Altroconsumo indaga sulla sostenibilità dei tessuti: sorprendentemente vincono quelli sintetici. Il report
Nonostante il calo causato dal Covid, le vendite di vestiti sono rimaste relativamente stabili nell’ultimo decennio, in particolare, quelle di indumenti acquistati nelle catene del fast fashion, che, per più della metà, restano nei nostri armadi per nemmeno un anno. Urge allora dare sostanza alla frase che sentiamo ripetere di continuo: "Acquistare meno, acquistare meglio". Ma queste due esigenze possono coincidere?
La maggior parte dell’opinione pubblica crede che i tessuti naturali − di origine vegetale (cotone, lino, canapa, denim) o animale (lana, seta, cuoio) − siano più gentili con il pianeta, perché appunto “naturali”, e in gran parte biodegradabili. Al contrario, quelli sintetici − nylon, poliestere, pvc, elastan − sono ritenuti più inquinanti, perché ottenuti da polimeri a partire dal petrolio. Quanto alle fibre artificiali, come la viscosa (derivata dalla lavorazione della cellulosa del legno), sono spesso assimilate a quelle sintetiche.
Ma per definire la sostenibilità di un prodotto, è necessario considerarne l’impatto lungo tutto il ciclo di vita, attraverso una metodologia standardizzata specifica detta Life Cycle Assessment (LCA). Essa valuta il ciclo di vita di un prodotto o servizio, in questo caso dell’abbigliamento, da come si ottiene la materia prima, a tutte le fasi successive, che si tratti di un tessuto sintetico o naturale.
Al fine di guidare i consumatori nelle scelte d’acquisto più sostenibili, Altroconsumo ha condotto un’indagine su 18 materiali tessili usati nell’industria dell’abbigliamento. Il campione è caratterizzato da capi di due tipologie, maglie e pantaloni. Inoltre, nell’analisi è stato ipotizzato che i capi venduti in Italia siano prodotti in Cina e il consumatore utilizzi ciascun capo per quattro anni e che lo indossi 170 volte, lavandolo dopo ogni 3 usi. Tra i numerosi indicatori di impatto ambientale, sono 5 quelli più importanti, in quanto insieme costituiscono il 70% degli impatti totali: l’incidenza sul riscaldamento globale, il grado di tossicità per l’uomo, il consumo di suolo, l’uso di risorse non rinnovabili e il consumo di acqua.
Dai risultati dell’inchiesta emerge che i capi con tessuti sintetici registrano le migliori performance ambientali. Tra questi, il più sostenibile è il nylon, in particolare quello riciclato al 100%, considerato come termine di paragone per calcolare quanto tempo e quante volte in più i capi ottenuti con altri materiali devono essere usati per ottenere lo stesso punteggio in sostenibilità. Anche tra le fibre sintetiche si notano differenze significative. Ad esempio, una maglia in poliestere deve essere indossata 50 volte in più e una in elastan 31 volte in più per eguagliare le prestazioni ambientali di una in nylon riciclato.
Sul versante diametralmente opposto al nylon riciclato troviamo la pelle naturale, che è il materiale con le maggiori ripercussioni per il pianeta, perché il suo ciclo di vita ha forti ricadute su tutti e 5 i maggiori indicatori di impatto. Tant’è che rispetto al nylon riciclato deve essere usata per 23 anni e 9 mesi, e indossata oltre mille volte in più.
La sostituzione della pelle naturale con quella sintetica è la strategia che consente di guadagnare più punti nella partita ambientale, perché la similpelle assorbe i costi ambientali con oltre 22 anni di anticipo rispetto alla pelle naturale. Si rilevano differenze sostanziali anche tra le fibre riciclate e le corrispondenti versioni convenzionali: se il capo in nylon vergine deve essere usato 14 volte in più per eguagliare le prestazioni ambientali del nylon riciclato, tra poliestere vergine e quello riciclato questo range si amplia (25 volte).
Inoltre, per quanto riguarda i tessuti naturali, nel confronto tra cotone e denim biologici e i corrispettivi convenzionali, i primi risultano molto più sostenibili. Al contrario, i tessuti convenzionali devono essere usati rispettivamente 74 e 67 volte in più rispetto ai loro corrispondenti biologici.
Resta il fatto che i materiali naturali risultano fortemente penalizzati dalla LCA: dopo la pelle, sono nell’ordine seta, lana, cotone, denim, canvas (un cotone più resistente), lino e canapa a infliggere all’ambiente i costi maggiori. Ma, come si vede dai dati, con differenze davvero notevoli tra una fibra e l’altra: se per raggiungere lo stesso livello di sostenibilità del nylon 100% riciclato la canapa e il lino richiedono circa 2 anni di utilizzi aggiuntivi, per il canvas si sale a 3 anni, per il cotone e il denim a 4, per la lana a 10 e per la seta addirittura a 16.
È noto che la composizione fibrosa dei capi in commercio il più delle volte non è pura, come dimostra l’indagine di Altroconsumo, ma composita: le fibre naturali e sintetiche sono mescolate nei modi e nelle percentuali più diverse, con varianti praticamente infinite. Questo rende le scelte dei consumatori (e le possibilità di riciclo) più complicate.
In aggiunta, è necessario ricordare che, sebbene il preoccupante fenomeno del rilascio delle microplastiche da parte dei tessuti sintetici sia ormai stato appurato, la valutazione del ciclo di vita dei prodotti tessili non può ancora tenerne conto, dal momento che non esistono ancora gli strumenti necessari a rilevare misurazioni precise.
Ovviamente, i risultati del test non devono certo obbligare i consumatori ad acquistare capi in nylon e poliestere a discapito di quelli in lana, seta o cotone. La conoscenza delle differenze di impatto ambientale dei vari materiali deve farci tenere comportamenti più consapevoli e sostenibili. Per esempio, chi desidera un abito di seta è meglio che sia sicuro di ciò che sta acquistando (della qualità, della fantasia, della taglia...), perché dovrà prendersene cura e usarlo per molti anni, cioè il tempo necessario per ammortizzare il suo impatto ambientale. Che ora sappiamo essere molto lungo.