Ucraina, giornalista francese ucciso: si muove Parigi, ma per la cronista palestinese non si è mosso un dito
Un anno fa veniva uccisa la giornalista palestinese Shireen Abu Akleh (con passaporto Usa). Due pesi e due misure
Shireen Abu Akleh, crimini contro l'umanità. Due pesi e due misure
Un anno fa, oggi, veniva assassinata la giornalista palestinese Shireen Abu Akleh. Era la corrispondente di Al Jazeera nella Cisgiordania occupata. Una reporter di talento, mai faziosa, capace di raccontare, con lucidità e equidistanza, il calvario quotidiano vissuto dai palestinesi sotto occupazione militare.
L’11 maggio 2022 Shireen Abu Akleh era arrivata a Jenin all'alba, insieme alla troupe televisiva, per seguire l'attacco dell’esercito israeliano a un campo profughi della città. Doveva essere una normale cronaca di combattimenti. Invece un proiettile israeliano l'ha uccisa sul colpo. Da allora nessuna giustizia è stata fatta, nessuna indagine seria è stata aperta e nessun provvedimento è stato preso, nemmeno dalla comunità internazionale.
Impossibile non mettere a confronto questo caso con quello del giornalista Arman Soldin, di Afp-Agence France Press, rimasto ucciso due giorni fa nel corso di un bombardamento nei dintorni di Chasiv Yar, località vicina a Bakhmut. La magistratura francese ha aperto un'indagine per crimini di guerra. L'annuncio è arrivato ieri dall'ufficio del procuratore nazionale antiterrorismo che ha affidato l'indagine ai gendarmi dell'ufficio centrale per la lotta contro i crimini contro l'umanità e i crimini d'odio. Una squadra di investigatori è pronta a partire sul luogo dove Arman Soldin è morto.
Shireen Abu Akleh aveva un passaporto statunitense, e in quanto cittadina americana avrebbe avuto diritto alla stessa attenzione e sollecita premura usata dalla Francia nei confronti dello sfortunato collega francese. Risulta perciò quanto meno incomprensibile il silenzio e l'immobilità osservati sia dagli Stati Uniti che dalla comunità internazionale nel corso di questi 12 lunghi mesi.
Lo stesso silenzio viene osservato in queste ultime settimane nel corso delle quali stiamo assistendo all'ennesima escalation del conflitto israeliano-palestinese, con l'esercito israeliano che bombarda civili inermi e innocenti, uccidendoli, nell'indifferenza della comunità internazionale.
Per chi non fosse mai stato da quelle parti, val la pena sapere che nella piccola Striscia di Gaza vivono stipate come sardine più di due milioni di persone, tanto da essere diventata una delle zone più densamente popolate al mondo. Un milione e mezzo di loro vive ancora nei campi profughi istituiti dagli israeliani nel 1948, all'indomani della proclamazione dello Stato di Israele. “Dovevano fornire un riparo temporaneo, ma nel tempo si sono riempiti di condomini a più piani”.
Nella Striscia di Gaza non esiste un'area che non sia abitata. Non c'è un solo angolo di quel fazzoletto di terra che si possa considerare vuoto. Agire in modo “chirurgico” è impossibile: ogni volta che lanci un missile semini morte.
Non ci può essere soluzione alla questione palestinese se prima non si risolve la questione dei campi dei rifugiati e dei crimini contro l'umanità perpetrati ai loro danni da 75 anni a questa parte. Espellere le persone dalle loro case, dalle loro città, dalla loro terra è un crimine di guerra, così come lo è quello di impedirgli di tornarci.
L'ostinata negligenza della comunità internazionale nei confronti della brutalità adoperata nei confronti del popolo palestinese ci rende tutti complici. Così come siamo tutti complici del silenzio calato sulla morte di Shireen Abu Akleh, colpevole di essere nata in quella che impropriamente venne definita una terra senza popolo, assegnata con la Risoluzione 181 a un popolo senza terra.