Dalla guerra in Ucraina all'Africa, ecco cosa non torna nel racconto mediatico

Le guerre in corso nel mondo sono 59: quella in Ucraina è solo l’ultimo di un lungo elenco di conflitti e non sarebbe nemmeno la più importante

di M. Alessandra Filippi
Volodymyr Zelensky e il premier olandese Mark Rutte all'Aia
Esteri

Guerra Ucraina, conflitto in Sudan e la polveriera africana: la scomoda storia della violenza. Commento 

Le guerre in corso nel mondo sono 59. Quella in Ucraina è solo l’ultimo di un lungo elenco di conflitti. E non sarebbe nemmeno la più importante. Nonostante questo gode di una sovraesposizione mediatica che nessuna guerra ha mai avuto dal 1945. Anzi si, quella “non convenzionale” della pandemia di Covid-19 resta ancora imbattuta: 750 giorni di martellamento continuo, h24 – considerando solo inizio e fine ufficiali dello stato di emergenza-, contro i 432 giorni conquistati dalla guerra ucraina, regina indiscussa di tutti i canali d’informazione del Bel Paese, con in testa la Rai. Radio3 Mondo, per esempio, da 432 giorni dedica fra il 60 e l’80% della rassegna stampa estera alla guerra in Ucraina. Come se tutto il resto del mondo fosse irrilevante. Deve succedere qualcosa di grosso, macroscopico per scalzarla dall’apertura.

Il punto è che a questo eccesso di informazione su alcune guerre fa da contraltare il silenzio assoluto su molte altre. Un’anomalia tutta italiana, perché altrove, questo, non succede. Basta navigare in internet sui siti delle più importanti testate giornalistiche del mondo per accorgersi che nel nostro paese c’è qualcosa nell’informazione che non gira nel verso giusto.

Oggi, per esempio, ricorre il nono anniversario della strage di Odessa. Eppure quasi tutti se lo sono dimenticato. In quel massacro morirono 42 giovani lavoratori innocenti, colpevoli di essere russofoni e non essere di destra. Nel rogo appiccato alla Casa dei Sindacati dalle squadre ucraine paramilitari non sono morti solo loro, ma è andata in fumo anche la verità. Questa scomoda storia è stata manipolata e riscritta mille volte, fino a diventare qualcosa d’altro che più nulla ha a che vedere con i fatti. L’Europa non ha mai preso posizione su questo eccidio. Le indagini avviate dalla giustizia ucraina sono state condotte in modo approssimativo e lacunoso, non in linea con gli standard giuridici europei. Mandanti e assassini non sono mai identificati.


 

Allargando gli orizzonti, c’è il Sudan, dove la guerra ha assunto risvolti da tragedia biblica. In sintesi, la transizione democratica della nazione africana si è sgretolata a causa della rivalità tra i due generali che, incoraggiati da potenze straniere in competizione per il dominio sul paese e sulle sue risorse (soprattutto uranio e oro, e noi sappiamo a cosa serve l'uranio, vero?), li hanno fomentati, senza far troppa fatica, spingendoli allo scontro.



 

Lì manca tutto, cibo, acqua, medicine, e milioni di persone stanno cercando di lasciare il paese e non si può proprio dire ci sia la gara di solidarietà per ospitarli. Per non parlare dei sudanesi che per avere un visto hanno lasciato i loro passaporti presso sedi diplomatiche di varie nazioni e adesso sono senza, perché nel frattempo le ambasciate sono state evacuate e nessuno ha pensato di restituirglieli.

Secondo le Nazioni Unite, 75.000 persone sono già state sfollate e almeno 20.000 sono fuggite in Ciad, 4.000 in Sud Sudan e 3.500 in Etiopia. Inoltre, circa 6.000 persone, per lo più donne, sono fuggite dal Sudan verso la Repubblica Centrafricana. Si stima che possano essere fra 800mila e 1 milione le persone che lasceranno il paese nelle prossime settimane, oltre quelle che lo hanno già fatto.

A ben guardare, tutta l'Africa è una polveriera. Ed è a due passi da noi. Insomma, dovrebbe importarci. Invece noi minimizziamo, la riduciamo a evento residuale, tanto è lontana. Così stiamo come sul Titanic, senza però nemmeno il conforto dell'orchestra. Questa mattina, in una prigione israeliana è stato trovato morto Khader Adnan, attivista politico, figura di spicco del gruppo militante Jihad islamica, accusato da Israele di terrorismo.



 

L'agenzia di stampa palestinese WAFA ha riferito che Adnan, 44 anni, della città di Arraba vicino alla città di Jenin nella Cisgiordania occupata, da 87 giorni si rifiutava di mangiare per protestare contro la sua detenzione senza accusa. Lo aveva fatto altre volte, sempre in occasione dei suoi ripetuti arresti, compreso uno sciopero di 55 giorni nel 2015 per protestare contro il suo arresto durante la cosiddetta “detenzione amministrativa”, nel corso della quale i sospetti sono trattenuti nelle carceri israeliane a tempo indeterminato, senza accusa né processo.

In Israele attualmente ci sono più di 1.000 detenuti palestinesi senza accusa né processo, il numero più alto dal 2003, secondo il gruppo israeliano per i diritti umani HaMoked. Persone arrestate senza un perché. Senza una prova. Senza un processo. Sempre in Israele 300.000 persone – il 2,5% della popolazione – continuano a protestare contro il criminale piano di riforma giudiziaria promosso dal governo di estrema destra guidato da Benjamin Netanyahu.

Protestano ogni settimana, da più di tre mesi. E non ne hanno mai saltata una. Grazie a queste manifestazioni la sciagurata riforma, per ora, è stata congelata ma i termini stanno per scadere. È una riforma micidiale, che mira a indebolire in modo significativo il sistema giudiziario del Paese, conferendo un potere quasi illimitato all’esecutivo. La proposta di riforma include infatti una “clausola di annullamento” che consentirebbe alla maggioranza semplice (61 parlamentari su 120) di rigettare le decisioni della Corte suprema. Quest’ultima è infatti l’unica istituzione con il potere di rivedere le leggi approvate a maggioranza parlamentare. Se passasse la Terra Promessa diventerebbe una Oligarchia perfetta.

Come vorrei vedere 300mila italiani sfilare ogni settimana per chiedere la riforma del lavoro, quella seria, che si attende dal tempo dei dinosauri della Prima Repubblica. Vorrei vederci in piazza come fanno i francesi, che si battono per temi caldi, cruciali, concreti, come se non ci fosse un domani, e non mollano, anche quando è evidente che hanno perso. Vorrei vederci in piazza a centinaia di migliaia per cose serie e non per questioni residuali. Noi in piazza scendiamo troppo poco, e quando lo facciamo, sembriamo tutti "signorine snob".

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