Etiopia, verso la trattativa con i ribelli del Tigrai (Tplf)

Quale sarà il futuro dell’Etiopia? Una trattativa con il Tplf può essere la soluzione del conflitto?

di Marilena Dolce
Etiopia, il primo ministro Abiy Ahmed 
Esteri
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Quale sarà il futuro dell’Etiopia, ma soprattutto, cosa sta succedendo ora nel Paese e perché il governo valuterebbe di trattare con il Tplf (Tigray People's Liberation Front), partito definito dal Parlamento “organizzazione terrorista”?

È finita la guerra interna tra esercito federale e combattenti del Tplf, l’ex partito di governo? Uno scontro iniziato il 3 novembre 2020 che ha visto lo schieramento su fronti opposti del premier Abiy Ahmed da una parte e delle forze politiche e militari della regione del Tigray, Tplf (Tigray People’s Liberation Front) e TSF, forze speciali Tigray, dall’altra. Oggi la situazione sembra statica, però niente è risolto e le notizie di trattative tra governo e Tplf si susseguono, senza per il momento conferma alcuna.

L’Etiopia è il secondo paese più grande dell’Africa, con oltre cento milioni di abitanti. Per ventisette anni dal 1991 al 2018, è stata governata da una coalizione di partiti con a capo il Tplf, rappresentante della minoritaria etnia tigrina che ha mantenuto nelle proprie mani potere economico, politico e militare, accumulando nel tempo grandi ricchezze. Il cambiamento arriva nel 2018 con Abiy Ahmed, che rappresenta, all’interno dello stesso gruppo di governo, la maggioritaria etnia oromo.

Per la prima volta a capo del governo non c’è il Tplf, che inizierà poco dopo, nel 2020, una guerra civile, senza esclusione di colpi. Lo scorso luglio inaspettatamente si modificano gli equilibri del conflitto fino a quel momento favorevoli all’esercito federale, Ethiopian National Defense Force (ENDF), alleato con l’esercito eritreo, EDF, le forze speciali Amhara, ASF e il gruppo Fano, una milizia composta da volontari Amhara.

Cogliendo di sorpresa molti osservatori, Abiy Ahmed dichiara il cessate il fuoco, unilateralmente, per motivi umanitari. Una tregua per permettere, come richiesto dalle agenzie internazionali, l’invio di aiuti alla popolazione stremata e per consentire ai contadini di non perdere il raccolto, alla fine della stagione delle piogge. Questi i motivi formali. Una scelta però giudicata fin da subito molto pericolosa e che tale si rivelerà. Le truppe federali e le truppe alleate il 28 giugno si ritirano dal Tigray. Il giorno successivo il Tplf, che respinge sprezzante il cessate il fuoco, festeggerà la presa di Mekelle, capoluogo della regione, liberata dall’esercito federale.

Così, all’inizio dell’estate anziché la pace, inizia un nuovo violentissimo conflitto, non più nel Tigray, ma nelle regioni confinanti, Amhara e Afar. In un primo momento di questa situazione trapelerà pochissimo. La stampa internazionale che ha potuto andare nel Tigray si focalizza sui numeri che definiscono quella in atto nella regione la più grave “crisi umanitaria”. Da inizio novembre 2020 a luglio 2021 sono infatti fuggite verso il Sudan circa 50.000 persone, mentre gli sfollati interni sono più di un milione e settecentomila. Se prima del conflitto su circa sei milioni di abitanti, un milione e mezzo aveva bisogno di assistenza umanitaria, dopo il conflitto il numero sale a 5.7 milioni di persone. Praticamente l’intera popolazione del Tigray.

Il peggio però non è ancora arrivato. Subito dopo l’attacco contro i militari di stanza presso la Caserma Nord, il più grande deposito di armi del Paese, il Tplf aveva compiuto una strage su base etnica. A farne le spese erano stati i civili Amhara residenti a Mai Kadra, nel Tigray. Contadini, agricoltori, lavoratori a giornata, braccianti diventano, per la loro appartenenza etnica, un facile bersaglio.

Il 9 e il 10 novembre 2020 il gruppo giovanile Samri, estremisti Tigrini affiliati al Tplf, con la complicità della polizia locale, compie rastrellamenti, chiedendo le carte d’identità, per individuare i “diversi”, i non Tigrini, e ucciderli. Le testimonianze raccolte mesi dopo dal team investigativo internazionale per i diritti umani (OHCHR) ed etiopico (EHRC) sono agghiaccianti e, paradossalmente, poco divulgate, scarsamente riferite all’opinione pubblica.

“I Samri”, si legge nel rapporto, “hanno usato macete e bastoni per uccidere gli Amhara”, stanandoli casa per casa, andando nei quartieri dove sapevano che c’erano le loro abitazioni. Chiedendo gli indirizzi ai vicini di casa. Un pogrom nel quale moriranno tantissime persone. I dati ufficiali parlano di duecento. Altri dati però ne indicano oltre settecento. Difficile stabilire numeri precisi perché moltissimi erano lavoratori stagionali, senza documenti.

Quest’episodio nella sua drammaticità è il segnale evidente della connotazione etnica dello scontro iniziato dal Tplf. Quindi non stupisce che a fine agosto il Tplf, rientrato di fatto vincitore nel Tigray, inizi l’invasione delle due regioni confinanti, Amhara e Afar. A quel punto è un susseguirsi di episodi drammatici in molte città della regione Amhara. Nel silenzio quasi totale della stampa italiana e internazionale ne scrivo, dopo aver ricevuto notizie dall’interno, a fine agosto per Affari Italiani. 

Mesi dopo anche Amnesty International nel report di febbraio 2022 riporterà quanto accaduto a Kobo, Chenna, Nifas Mewcha. Un elenco di nomi di luoghi accumunati da un destino tragico. Deliberate uccisioni di civili, “gravi violazioni del diritto umanitario”, “crimini di guerra”, “crimini contro l’umanità”. Efferatezze, brutalità, violenze contro i soggetti più deboli, le donne, gli anziani. Umiliazioni e, ancora una volta, discriminazione etnica. Persone incolpate di appartenere all’etnia sbagliata. Tutti i testimoni riportano insulti e la volontà delle milizie Tigrine di sterminare gli Amhara.

“Questa guerra non è ancora finita”, dice Aster Carpanelli, intellettuale e attivista etiopica residente in Italia, “Nella regione Afar ci sono trecentomila sfollati che aumentano di giorno in giorno. Molte zone sono ancora occupate dal Tplf. Da lì la gente scappa tutti i giorni per non essere ammazzata. In Welega, regione Oromia, hanno trovato 168 Amhara uccisi, di cui 87 seppelliti in fosse comuni…ormai queste non sono neppure più notizie, ci siamo abituati agli orrori, ai numeri dei morti, come se la vita non avesse più valore. Certo viene da chiedersi se ci sia un governo…”. Nella zona del Nord Wollo, regione Amhara, il Tplf lo scorso agosto ha ucciso 600 persone. Non è noto invece il numero dei feriti perché mancano ospedali e ambulatori che, oltre alle cure, potrebbero fornire dati sui ricoveri.

L’organizzazione Amhara Association of America ha inviato in Etiopia un proprio team per raccogliere dati e testimonianze sulla guerra in corso e sull’assalto delle milizie Tigrine contro i civili Amhara. Il modus operandi è ovunque sempre lo stesso: saccheggi contro le proprietà private, case, negozi, fattorie, devastazioni di edifici pubblici, scuole, ospedali. Molte le testimonianze di atrocità contro i civili e i racconti di stupro, anche di gruppo, contro le donne. Episodi identici a quelli raccolti nei report di Amnesty International e in quello congiunto etiopico e dell’UN. Il rapporto dell’associazione Amhara però identifica i morti mettendo nero su bianco una lunga lista di nomi, patronimici, età, sesso, circostanze della morte o del ferimento.

“I problemi attuali dell’Etiopia”, spiega Aster “sono di natura etnica. Il premier Abiy ha conquistato il nostro cuore parlandoci in modo veemente di Etiopia unita. Abbiamo creduto in lui. Abbiamo creduto che fosse Ethiopianist, che volesse un’Etiopia unita, come tanti di noi. Ma non sembra essere così. Forse perché lui stesso è cresciuto all’interno di un sistema politico etnico. Il suo gruppo, l’Oromo Democratic Party, (ODP) un tempo conosciuto come Oromo Peoples' Democratic Organization, OPDO è differente dal Tplf per posizioni politiche ma non per ideologia etnica. Gli uni sono per l’Oromia, gli altri per il Tigray. Perché l’Etiopia si trova ora in questa situazione? Proprio perché da una parte c’è il Tplf che rappresenta il Tigray e dall’altro l’ODP che rappresenta l’Oromia.

Quella in corso è una lotta interna al Paese. Potrebbero aprirsi due scenari, il primo con una trattativa tra governo e Tplf, il secondo invece iniziando il dialogo sul futuro del Paese, con la formazione di una commissione composta da persone della società civile appartenenti a diversi gruppi etnici”. “In questo momento la situazione è delicata”, continua Aster “finora il governo ha negato l’ipotesi di una trattativa con il Tplf, anche se, sia Debretsion Ghebremichael, politico a capo del Tplf, sia la vice segretaria generale dell’Onu, Amina Mohammed, avevano in realtà confermato tale ipotesi”.

Secondo Aster questa eventualità sarebbe una coltellata per le persone delle regioni Afar a Amhara, che tanto hanno sofferto per le uccisioni delle forze del Tigray. “Peraltro”, spiega Aster “anche i Tigrini si chiederebbero il senso della guerra cui il Tplf li ha costretti. Hanno perso figli, mariti, fratelli, per cosa? Cosa hanno ricevuto in cambio? Non i territori contesi che restano Amhara.

È triste vedere che ancora una volta non sono le popolazioni a scontrarsi ma i partiti. Sono giochi politici”. Il 22 febbraio con un tweet l’Ufficio del Primo Ministro dichiara che “per il momento non ci sono ancora negoziati in corso, ma che non si esclude la possibilità di discussioni” con il Tplf.

Sembrerebbe quindi che il governo etiopico sia aperto al dialogo. Una dichiarazione arrivata a breve distanza da quella del segretario delle Nazioni Unite, Antonio Guterres che ha affermato che si sono fatti progressi per mettere fine alla guerra civile in Etiopia. Lunedì 21 febbraio il Parlamento etiopico inoltre ha annunciato la formazione di una commissione per il dialogo nazionale composta da undici persone. Tanti invece gli interrogativi aperti dal nuovo corso della politica di Abiy Ahmed.

A gennaio la scarcerazione del padre fondatore del Tplf, Sibhat Nega aveva creato malumori anche tra i più fedeli sostenitori del premier. Per intendersi il leader del Tplf scarcerato è uno che non usa mezzi termini quando si riferisce agli Amhara. Durante un’intervista, a un giornalista che glielo faceva notare, ha risposto secco che “l’unico Amhara buono è un Amhara morto”. Ci si chiede dunque quale potrebbe essere il dialogo di pace tra governo e Tplf se permangono resistenze etniche così forti.

“Prima del 1991”, dice Aster, gli etiopici potevano muoversi liberamente tra quelle che allora erano quattordici regioni e che ora sono undici. Adesso non è più possibile, è come se ognuno di noi per passare dall’una all’altra dovesse richiedere un permesso di soggiorno. È diventato difficile spostarsi anche per lavorare. E poi ogni regione ha forze speciali. In Oromia, per dire, sono circa 400 mila le forze speciali, ottimamente armate. Se si volesse, per fermare il TDF, i combattenti Tigrini che ancora occupano le zone Amhara, basterebbero loro”.

Sul possibile dialogo tra governo e Tplf, mentre il premier Abiy si esprime con cautela, Debretsion Ghebremichael, leader del Tplf in un discorso tenuto alla televisione tigrina ha detto che il Tigray rivuole i propri territori, ora Amhara, vuole mantenere l’esercito della regione, avere il diritto all’autodeterminazione e che, sul proprio futuro, decideranno loro stessi con un referendum. Queste, ha aggiunto, non sono condizioni negoziabili.

Così, mentre in ampie parti del Paese i civili Amhara continuano a morire e in molti si chiedono perché il governo non intervenga, il Tplf si esercita più che al dialogo al diktat. Davvero Abiy Ahmed può immaginare che la soluzione della guerra sia il dialogo con il Tplf? All’interno del governo federale molti esprimono grande preoccupazione per il futuro politico del premier se prendesse la decisione di salvare politicamente il Tplf, mettendo così a rischio l’unità dell’Etiopia.

@Marilena Dolce

 

 

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