Medio Oriente, una sola soluzione per fermare il bagno di sangue: basta armi a Israele
Quella di Israele è una guerra contro i palestinesi, non contro Hamas. Una guerra di annientamento, un massacro indiscriminato e sospinto drammaticamente verso una nuova Nakba
Nord Israele - Edifici danneggiati da razzi provenienti dal Libano
Guerra Israele, da un anno assistiamo a un match macho-culturista che ha sotterrato la diplomazia, esiliato la pace e che vede come grandi assenti le proposte
Non uccidere. È uno dei pilastri ebraici, cristiani e musulmani. Ma tutti sembrano averlo dimenticato. Così come sembrano ignorare che l’obiettivo iniziale dichiarato da Israele, “cancellare Hamas”, presto si è rivelato per quello che è, una cinica e spietata vendetta. Non si può più mascherare e giustificare con la lacera scusa dell’autodifesa, a maggior ragione adesso, che hanno ucciso anche Sinwar, facendone un martire che è già un eroe.
Quella di Israele è una guerra contro i palestinesi, non contro Hamas. Una guerra di annientamento, un massacro indiscriminato e sospinto drammaticamente verso una nuova Nakba, ora allargatasi anche al Libano, dove gli israeliani hanno già ucciso più di 2200 persone. Approfittando dell’impunità della quale godono, vogliono eliminare anche il nemico di una vita: l’Iran, l’antica Persia. Nazione della quale la maggior parte di commentatori, e politici, con rimarchevole competenza, dimostrano di non sapere nulla.
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Il 99% di loro non ha letto un solo libro che riguardi la sua storia, e tanto meno qualche libro sul conflitto arabo israeliano. Molti non sono mai nemmeno stati in Israele, Libano, Cisgiordania o Gaza. Eppure, parlano, pontificano, fanno dichiarazioni al termine delle quali, senza offrire validi argomenti, se non che Israele è l’unica democrazia del Medioriente, con postura littoria dichiarano la loro fede filoisraeliana. Della serie: il diritto di Israele a difendersi è buono; quello dei palestinesi di ribellarsi all’oppressione è cattivo.
Molti dei nostri politici, giornalisti, commentatori, in ottima compagnia con la maggior parte dei loro colleghi occidentali, sembrano ignorare che il 7 ottobre non è piombato su Israele come un fulmine a ciel sereno, ma come un ultimo sanguinoso atto di un dramma il cui preludio è suonato più di cento anni fa. Fare la cronistoria dal 1898 al 2023 in un articolo on line è arduo. Ma fare chiarezza sugli eventi salienti che, solo negli ultimi anni, hanno portato a quel maledetto 7 ottobre 2023, non solo si può, ma è doveroso.
Innanzi tutto, quello che in 13 mesi ha ridotto in macerie la Striscia di Gaza, massacrato quasi 43.000 palestinesi, ferito e disperso oltre 110.000 dei suoi 2.300.000 abitanti – e non dimentichiamo i quasi 800 morti in Cisgiordania, assassinati da esercito e coloni, e dove è in corso un’altra tragica pulizia etnica - è il quinto conflitto che Israele ingaggia con le milizie di Hamas dal 2007, anno in cui esponenti politici del gruppo militante islamista sono stati regolarmente eletti dai gazawi. Da allora, la Striscia è governata da Hamas e quella groviera che è ormai la Cisgiordania è sotto l’imbelle e corrotta Autorità Nazionale Palestinese. Un vecchio sogno nel cassetto di Netanyahu, per realizzare il quale non ha esitato a coprire, e a lasciar coprire, Hamas di un fiume di denaro. Obiettivo: spaccare la dirigenza dei palestinesi in due, secondo l’antico adagio dividi et impera, in modo da ostacolare la nascita dello Stato palestinese.
Dopo la presa del potere da parte di Hamas -che ha fatto piazza pulita della fazione di Fatah ricorrendo a un brutale spargimento di sangue-, Israele, occulto artefice dell’invenzione politica del movimento palestinese di Gaza, pur continuando a foraggiarlo e a permettere che il denaro affluisse nelle sue casse, ha imposto un blocco della Striscia danneggiando gravemente la sua economia. Il blocco è stato giustificato adducendo “pericoli per la sicurezza nazionale”. Gruppi internazionali per i Diritti umani, fin da allora lo definirono “una punizione collettiva”. Dal 2007 sono stati innumerevoli gli scontri, con fasi acute nel 2008-2009, 2012, 2014, 2021. Conflitti a causa dei quali sono morti più di 6.400 palestinesi e circa 300 israeliani.
Nel 2018 ci furono imponenti e pacifiche proteste, organizzate settimanalmente vicino al confine tra Gaza e Israele. Tutte represse nel sangue, con i cecchini israeliani che sparavano sulla folla inerme da postazioni create ad hoc. In quegli attacchi morirono 170 palestinesi e centinaia rimasero feriti. Nel maggio 2021, dopo settimane di tensione scatenate dalla disputa di Sheikh Jarrah, un’area di Gerusalemme Est che documenti ottomani dimostrano essere stata acquistata da fiduciari ebrei nel 1870, rivendicata dai palestinesi che si opponevano allo sgombero di sei famiglie sfrattate, durante li Ramadan, centinaia di palestinesi rimasero feriti in scontri con le forze di sicurezza israeliane nella Spianata della moschea di Al-Aqsa, a Gerusalemme.
In risposta, Hamas, per giorni, lanciò da Gaza raffiche di centinaia di razzi e missili su Israele, che a sua volta rispose con pesanti attacchi aerei sulla Striscia. Nei combattimenti, durati dieci giorni, morirono più di 250 palestinesi, mentre 13 furono le vittime civili israeliane. Ingenti furono le distruzioni a Gaza. È altamente probabile che in occasione di quella crisi, culminata nel cessate il fuoco entrato in vigore alle 2 del mattino del 21 maggio, l'ala militare di Hamas guidata da Yahya Sinwar, capo di Hamas a Gaza dal 2017, abbia iniziato a pianificare l'operazione contro Israele del 7 ottobre 2023.
E arriviamo al 2023. Dopo una collezione di morti ammazzati e di scontri, iniziata il 2 gennaio, il 6 aprile l’esercito israeliano compie un assalto nella moschea di Al-Aqsa mettendo a segno nuovo punto di non ritorno nell’insanabile conflitto arabo israeliano. In quell’occasione, la polizia israeliana dichiarò che l’irruzione si era resa necessaria dopo che "centinaia di rivoltosi e profanatori di moschee si erano barricati all'interno, armati di pietre, bastoni e fuochi d’artificio”.
Chi frequenta Gerusalemme sa molto bene quanto imponente sia il controllo che l’esercito israeliano esercita su tutti gli accessi alla spianata delle Moschee, soprattutto quello riservato ai fedeli mussulmani. Come sarebbero potuti dunque entrare questi sedicenti profanatori di moschee, armati di verghe, sassi e petardi? E a quale scopo avrebbero dovuto barricarsi nella moschea, per aggredirsi fra loro? Senza contare, poi, che durante il Ramadan è previsto che ci si astenga dal bere, mangiare, avere rapporti sessuali, mentire, fumare, usare un linguaggio scurrile e, soprattutto, dal fare la guerra. Questo è solo uno delle decine di episodi di violenza e provocazione, e nemmeno il peggiore, verificatasi dall’inizio dell’anno e fino all’inizio di ottobre. Per chi volesse approfondire, a questo link (https://en.m.wikipedia.org/wiki/Timeline_of_the_Israeli–Palestinian_conflict_in_2023) trova l’elenco completo.
L’attacco del 7 ottobre 2023, dunque, arriva al culmine di un crescendo di scontri uno più sanguinoso e mortale dell’altro. Un’escalation della quale oggi non si vede la fine e che rischia di degenerare in una guerra più ampia, con esiti potenzialmente devastanti. Per Hamas l'attacco è “una risposta all'occupazione israeliana, al blocco della Striscia di Gaza, alla violenza dei coloni israeliani contro i palestinesi, alle restrizioni alla circolazione dei palestinesi e all'imprigionamento di migliaia di palestinesi”, che Hamas pensava di liberare prendendo in ostaggio israeliani. Quella di Israele è una controffensiva degenerata fin da subito in un’azione sterminatrice che non pare avere altro sbocco se non la distruzione totale e l’attuazione della “soluzione finale”, più volte invocata da Netanyahu e dal suo governo.
Da 13 mesi assistiamo a un ping-pong di botte e risposte. Un match macho-culturista che ha fatto fuori la diplomazia, esiliato la pace e azzerato a oltranza le proposte. Lucio Caracciolo, fondatore della rivista Limes, nel corso della puntata di 8 e mezzo andata in onda lo scorso 4 ottobre su La7, riferendosi al tentativo di invasione del Libano, tutt’altro che riuscito date le ingenti perdite che l’esercito israeliano ha subito e subisce – pur tacendole, così come tace sui danni dei missili iraniani - ha detto che “Gli israeliani adottano un principio, a mio parare irrazionale, che è quello di ficcarsi in trappole preparate dagli altri”.
Quando Lilly Gruber gli ha chiesto “Allora perché fare l’invasione di terra?”, lui ha risposto “L’unica spiegazione che riesco a dare è quella che Israele vuole prendersi un pezzo di Libano”. Quindi, oltre alla Cisgiordania e Gaza, nel mirino di Netanyahu e del suo governo ci sarebbe anche il Paese dei cedri. Il progetto è chiaro: creare la Grande Israele. Sarà in quest’ottica che Netanyahu ha proposto di cambiare il nome della guerra da ‘Spade di ferro’ a ‘Guerra di Komemiyuth’, che in ebraico vuol dire ‘a testa alta’, ma anche ‘indipendenza’ e ‘sovranità’?
Nel Talmud di Babilonia è scritto che “Chi salva una vita salva il mondo intero”. E nel Corano troviamo una formulazione poetica che recita "Chi uccide un'anima innocente, uccide tutte le persone" (5.32). Max Josef Metzger, un prete tedesco ucciso dai nazisti nel 1944 perché predicava la pace, diceva “noi dobbiamo organizzare la pace così come altri organizzano la guerra”. In una lettera del 1944 indirizzata dal carcere a papa Pio XII, scriveva “Se l’intera cristianità avesse fatto una potente unica protesta, non si sarebbe evitato il disastro?”. Di fronte al bagno di sangue in corso a Gaza, in Cisgiordania e da un mese anche in Libano, la sua esortazione può trovare applicazione nel conflitto arabo-israeliano e trasformarsi in una proposta?
Se la risposta è no, l’alternativa è decidere, una volta per tutte, di bloccare ogni fornitura di armi, sia europea che americana; concordare l’embargo totale fino al raggiungimento di un cessate il fuoco; dare corso a tutte le Risoluzioni dell’ONU ignorate da Israele dal 1948, rendendo efficaci i dispositivi vincolanti emessi dalla Corte Internazionale di Giustizia, applicandoli alla lettera, compreso lo sgombero totale di tutte le colonie illegali dalla Cisgiordania occupata. Il dubbio che Israele voglia mettere in atto, alla lettera, il patto di alleanza che secondo la Bibbia Dio avrebbe stretto con Abramo è molto più che un dubbio. Basta leggere: “Alla tua discendenza io do questo paese, dal fiume d’Egitto al grande fiume, il fiume Eufrate” (Genesi, 15,18).
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