Non esiste un piano B per la gente di Rafah: cessate il fuoco lontano
Israele-Hamas, gli Stati Uniti continuano a spingere per trovare un accordo ma i nodi restano sempre gli stessi
Non esiste un piano B per la gente di Rafah
Dopo mesi di minacce, ieri dal Gabinetto di guerra di Netanyahu è arrivato l’ordine di invadere Rafah. Sono almeno 200.000 i palestinesi che, già stremati da sette mesi di guerra e deportazione forzata, sono stati costretti a spostarsi di nuovo in fretta e furia. Ma questa volta non c’è più terra dove andare: incuneati in una città senza uscita, chiusa a sud dal confine egiziano, a ovest da quello israeliano, a est dal mare, non gli resta che tornare verso nord, come fin da lunedì gli ha ordinato di fare l’IDF lanciando migliaia di volantini dal cielo contenenti l’ordine di smobilitare e mappe con le direzioni da prendere. Un ordine sadico, privo di qualunque umanità, dal momento a nord di Rafah non c’è altro che una spettrale e apocalittica distesa di macerie lunga 40 chilometri, quanto tutta la Striscia. Lì non c’è nulla perché tutto è stato distrutto. Comprese le infrastrutture dell’acqua, della luce, delle fogne. Non ci sono ospedali e regnano malattie delle quali noi abbiamo dimenticato i nomi, tanto sono lontane dalla nostra memoria.
I carri armati dell’esercito israeliano, schierati minacciosi da settimane al confine della Striscia, ieri sono entrati a Rafah est e piantato la bandiera di David sui valichi gazawi. Mentre centinaia di migliaia di palestinesi - a grappoli aggrappati a carretti trainati da asini o ai pochi furgoni e macchine ancora circolanti-, fuggivano in preda al panico verso il mare, come da copione i cingolati dell’IDF hanno iniziato a spianare e devastare tutto quello che hanno trovato lungo le deserte strade pattugliate. Simultaneamente all’invasione di terra, Israele ha chiuso anche gli unici due valici di Rafah dai quali ancora entravano, come da un contagocce di un catetere, i pochi aiuti umanitari dei quali Gaza ha disperatamente bisogno e ai quali Israele già impediva e negava l’ingresso. Tanto che da settimane l’Ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli affari umanitari (OCHA) denunciava che a un numero significativo di missioni di aiuti nel nord di Gaza, nonostante l’apertura di un nuovo valico, per tutto il mese di aprile non era stato possibile accedere. Alla frontiera la fila di tir carichi di merce in attesa di essere consegnata è lunga decine di chilometri.
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Inatteso è arrivato un segnale forte dall’amministrazione Biden la quale, benché abbia armato fino ai denti il suo alleato e stanziato per lui 23 miliardi di dollari in aiuti militari, ieri in segno di dissenso ha bloccato all’ultimo minuto l’invio di 2500 bombe dirette a Tel Aviv. Una decisione resa possibile dall’applicazione della legge Leahy, il cui ricorso è stato invocato da un gruppo nove senatori statunitensi. La Legge Leahy, che deve il suo nome al senatore che l’ha scritta Patrick Leahy, vieta gli aiuti degli Stati Uniti alle unità militari straniere che violano i diritti umani. Una decisione tardiva ma che comunque è un primo passo verso quello che si spera possa essere il blocco totale dei rifornimenti da parte degli Usa, oltre che un’ulteriore prova dei crimini di guerra e contro l’umanità commessi dallo stato ebraico.
Intanto al Cairo proseguono febbrili le trattative per scongiurare quella che si profila essere una delle più tragiche e sanguinose stragi di civili che mai storia umana abbia conosciuto. Gli Stati Uniti continuano a spingere per trovare un accordo ma i nodi restano sempre gli stessi: la richiesta di Hamas di un cessate il fuoco permanente e la possibilità di includere i corpi degli ostaggi morti fra i 33 da rilasciare, richieste che Israele continua a considerare inaccettabili. Sul fronte interno, Netanyahu deve misurarsi con la crescente ondata di proteste dei cittadini israeliani che lo accusano di non voler porre fine alla guerra e di non voler chiudere un accordo che riporti a casa i prigionieri da sette mesi tenuti in ostaggio a Gaza.
Più di 30 ONG britanniche hanno firmato una dichiarazione congiunta che invita il governo britannico a lavorare urgentemente per prevenire qualsiasi ulteriore attacco a Rafah. Nella loro dichiarazione, i firmatari, tra cui Action Aid UK, Christian Aid UK, Care International UK, International Rescue Committee UK, Medical Aid for Palestine, Oxfam GB e Save the Children UK, hanno affermato che le ripetute dichiarazioni dei politici britannici sono state ignorate da Israele. “L’incapacità dei nostri leader di sostenere le parole con azioni significative è evidente”, hanno affermato i gruppi, chiedendo al governo di “agire finalmente per fermare il massacro”.“Il Regno Unito deve lavorare urgentemente per impedire qualsiasi ulteriore attacco a Rafah, chiedere un cessate il fuoco immediato e duraturo, riprendere i finanziamenti all’UNRWA e sospendere la vendita di armi a Israele finché esiste il rischio che possano essere utilizzate per violare le norme umanitarie internazionali. legge”, hanno aggiunto. “Un cessate il fuoco è l’unico modo per fermare la morte e la distruzione, fornire più aiuti a coloro che ne hanno disperatamente bisogno e rilasciare in sicurezza gli ostaggi. “Non esiste un piano B per la gente di Rafah”.