Ucraina, Massolo: "Pace lontana. Biden ha rischiato di allargare il conflitto"

L'ambasciatore, presidente dell'ISPI, spiega: "La guerra sarà ancora lunga. Siamo di fronte a una crisi esistenziale dell'Unione europea"

Di Lorenzo Zacchetti

Giampiero Massolo
Esteri
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L'ambasciatore Massolo (ISPI): "La guerra durerà a lungo, non è ancora tempo di negoziati"

Guerra Russia-Ucraina: la situazione è sempre più drammatica e difficile da interpretare. Per una lettura approfondita dei vari aspetti del conflitto, da quello militare a quello geopolitico, affaritaliani.it si è rivolta a un’autorità nel campo della diplomazia: l’ambasciatore Giampiero Massolo. Presidente di Fincantieri e dell’ISPI (Istituto per gli Studi di Politica Internazionale), in passato è stato d.g. del Dipartimento delle Informazioni per la Sicurezza presso la Presidenza del Consiglio, consigliere per i Vertici G8 e G20 e Segretario Generale del Ministero degli Affari Esteri. Il suo nome è stato fatto più volte anche nel tormentato processo di scelta del successore di Sergio Mattarella, che poi è rimasto al Quirinale.

Il conflitto in Ucraina dura ormai da più di un mese, mentre tutti si aspettavano una “guerra lampo”, Putin compreso: perché le cose stanno andando diversamente?

“Credo appunto che Putin fosse il primo ad aspettarsi un blitzkrieg, basandosi su informazioni di intelligence che non si sono rivelate così accurate: infatti sono saltati due responsabili. In secondo luogo, probabilmente si immaginava che i vertici dell’esercito ucraino avrebbero favorito una soluzione concordata, cosa che assolutamente non è avvenuta. Infine, l’esercito russo sta dimostrando dei limiti abbastanza evidenti in termini operativi, di coordinamento e di linee di approvvigionamento. L’eclissi del potente ministro della Difesa Shoigu la dice abbastanza lunga. Il combinato disposto di queste sottovalutazioni ha impedito la guerra-lampo e lì è cominciata un’altra fase”. 

Di quale tipo?

“Finita l’illusione del blitzkrieg si è passati alla fase del soffocamento, partendo dalle grandi città, affiancato dal bombardamento. Questa tattica rispondeva ancora a un obiettivo massivo del conflitto, finalizzato a cambiare regime a Kiev, decapitando l’amministrazione-Zelensky… a cominciare proprio da Zelensky stesso. Anche questo, tuttavia, non ha funzionato e quindi si è passati a un’ulteriore fase”.

Come si caratterizza?

“Possiamo distinguere tre obiettivi: 1) Consolidare le conquiste territoriali nel Donbass e mettere al sicuro la Crimea assicurandole continuità territoriale a Est con il Donbass e a Ovest con la Transnistria; 2) Accerchiare dall'alto le forze ucraine che fino dal 2014 sono concentrate maggiormente a Sud-Est; 3) Bombardare le città e le linee di approvvigionamento, per togliere le forniture alle forze ucraine e poi per intimidire i civili e fiaccarne il morale.
Questa è la fase che sta attraversando il conflitto, vedremo nel tempo se darà dei risultati. Non mi pare che in una situazione del genere ci sia spazio per dei negoziati significativi, almeno nell’immediato: Putin sente ancora di avere la possibilità di raggiungere i suoi obiettivi, mentre Zelensky ha con tutta evidenza l’impressione di avere ancora molto da difendere. In questo momento quindi non vedo una soluzione a portata di mano. E nemmeno un cessate il fuoco”.

Per quanto la soluzione diplomatica sembri ancora lontana, ha colpito tutti la durezza delle parole usate da Biden contro Putin. Lei che cosa ne pensa?

“Da un punto di vista valoriale ed emotivo credo che si possano sottoscriverle. Inoltre c’è un elemento di guerra verbale, che caratterizza questo conflitto fin dal suo sorgere e che va tenuto in conto. Poi, però, c’è un aspetto tecnico preciso: quanto detto da Biden tecnicamente si configura come un ampliamento del conflitto e non a caso è stato poi smentito dalla stessa amministrazione americana. Finora non abbiamo mai perseguito il regime change in Russia. Se non smentite, le parole di Biden avrebbero configurato un obiettivo diverso da quello su cui l’alleanza occidentale si è finora mossa e su cui c’è un consenso ampio: aiutare gli ucraini in quanto aggrediti ed evitare che Putin riporti un successo che finirebbe col mettere in discussione l’ordine complessivo della sicurezza in Europa. Se invece puntiamo a cambiare il regime russo, ampliamo il perimetro del conflitto e, in qualche modo, incoraggiamo Putin a fare altrettanto. Per esempio estendendolo ad aree sensibili come potrebbero essere le minoranze russe in Moldova (cioè la Transnistria), nel Caucaso e nei Balcani, oppure creando degli incidenti dove sono presenti le Brigate Wagner, ad esempio nel Sahel, in Libia, nel Mali o in Siria. Questo comporterebbe un allargamento del conflitto, quindi sul piano tecnico le parole del presidente USA non sono state opportune. E non casualmente sono state smentite”.

Se non fosse successo, saremmo stati di fatto alla Terza Guerra Mondiale?

“Beh, andrei piano con le parole, ma sicuramente avrebbe significato ipotizzare un ampliamento del conflitto, cosa che è tutto interesse dell’Occidente evitare”. 

In questa dinamica, si sta molto discutendo sulla fornitura di armi all’Ucraina. Senza nulla togliere all’eroismo della resistenza, si può dire che questi aiuti sono stati fondamentali per ostacolare l’invasione russa?

“Sicuramente l’aiuto è stato determinante, ma con due finalità. Il mondo occidentale non poteva rimanere inerte di fronte all’aggressione: si aiuta l’aggredito, che ha tutto il diritto di difendersi, anche sulla base del diritto internazionale e della Carta delle Nazioni Unite. Inoltre stiamo aiutando anche noi stessi: bisogna rendere quanto più circoscritta e meno evidente l’eventuale vittoria di Putin, in modo che quando partiranno dei negoziati significativi non ci sia uno stravolgimento dell’ordine di sicurezza europeo, ritornando alla Guerra fredda, alle zone di influenza, alla politica del più forte e agli Stati a sovranità limitata”. 

Zelensky ha aperto alla neutralità dell’Ucraina, mentre si invocano figure di mediazione come il Papa, Angela Merkel, la Turchia e Israele. Quale di queste strade potrebbe condurre alla pace?

“Turchia e Israele stanno esercitando dei buoni uffici. Potremmo discutere a lungo sul perché siano proprio questi due Paesi, ma andremmo fuori tema. La comunità internazionale sta cercando di coinvolgere in questo discorso anche la Cina, che ha certamente delle leve importanti nei confronti di Mosca per condurla a una posizione più convintamente negoziale. Sono un po’ più scettico nei confronti della mediazione da parte di figure singole, perché questo è un conflitto sistemico, che riguarda l’ordine più complessivo della sicurezza in Europa e gli ambiti futuri di un assetto globale del mondo. Ci dovrà essere un riassetto globale, da gestire nel tempo, non si tratta di una mediazione occasionale da parte di un capo di Stato. La neutralità potrebbe favorire una tregua, ma poi bisogna vedere se la si intende come disarmata o con la presenza di una forza militare, se sarà garantita internazionalmente ed eventualmente da quali Paesi. Poi c’è il problema di quanto Putin ha conquistato con la forza, ovvero l’annessione della Crimea e delle repubbliche che lui solo finora ha riconosciuto, il resto del Donbass, l’eventuale trattamento delle minoranze, che senso dare all’integrità territoriale dell’Ucraina. Tutto questo, come ben vede, è estremamente complesso da negoziare. Quindi è possibile ipotizzare un processo in più fasi. La prima potrebbe essere una tregua, ma si verificherà solo quando Putin penserà di non poter più avanzare oltre e Zelensky di non riuscire più a difendersi. Solo a quel punto, con la situazione congelata, si potranno iniziare dei negoziati efficaci, ma che potranno durare molto a lungo. Mi aspetto che quanto sta accadendo duri ancora per molto tempo”. 

In questo riassetto generale è necessario porsi anche degli interrogativi sull’Unione europea. Al di là del fatto di non avere ancora una strategia di sicurezza comune, si può dire che stiamo pagando il fatto di aver tollerato il conflitto in atto tra Russia e Ucraina fin dal 2014, sostanzialmente senza reagire?

“Spesso si dice che l’Unione progredisce se posta di fronte a delle grandi crisi e questa sicuramente lo è. Di fronte al Covid siamo riusciti a realizzare un’impresa epocale con Next Generation Eu e la messa in comune del debito. In qualche modo, ci troviamo di fronte a una crisi potenzialmente ‘esistenziale’ per l’Unione, che pone con grande urgenza il tema della difesa europea, della soggettività internazionale dell’Ue, della necessità di definire un interesse comune europeo che non sia solo il minimo comune denominatore di quelli dei singoli Stati. Anche qui il processo sarà lungo. Le soluzioni non sono a portata di mano e il ruolo fondamentale lo avranno i Paesi più grandi, in particolare Francia, Germania e Italia. Ed è per questo che, a livello italiano, dobbiamo essere consapevoli della posta in gioco. Sarebbe contrario all’interesse nazionale se in questo processo non svolgessimo il ruolo che ci è proprio: quello di un grande Paese europeo che non si sottrae in alcun modo alle sue responsabilità”.
 

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