L’inverno dei leoni, saga dei Florio: ode al modo meridionale di fare impresa
Stefania Auci, L’inverno dei leoni: la saga dei Florio recensione di Affaritaliani.it
Stefania Auci e la saga dei Florio. Un connubio che, dannunzianamente, ha generato molti frutti dalla saporosità gradevole e intensa. Ha visto la luce, nei giorni scorsi, il secondo, ed esaustivo, volume sulla fantasmagorica vicenda della dinastia - perché tale deve essere considerata a tutti gli effetti - altoborghese dei Florio, siciliani e mediterranei senza infingimenti di sorta, e privi di quelle fisime tipicamente settentrionalistiche che hanno marchiato, con il proprio indelebile crisma, alcuni nuclei imprenditoriali italiani che hanno imperversato, e, per certi versi, lo fanno ancora oggi, con il vizio furbastro di privatizzare gli utili e socializzare i debiti e le perdite, con la minaccia dei licenziamenti e della ridimensione del lavoro produttivo. Gli esempi, in tal senso, sono quasi innumeri!
I Florio, che hanno fatto uso di stemma: “di azzurro al braccio destro vestito di rosso impugnante nella mano di carnagione una spada di argento guarnita di oro”, come viene descritta, nel 1914, da C. Padiglione nel suo Trenta centurie, alle pp. 128-129 - no! Essi si sono segnalati per l’innata umanità presente nel proprio DNA.
Stefania Auci, L’inverno dei Leoni. La saga dei Florio. II, Milano, Casa editrice NORD, 2021, pp.679, con questo romanzo ha inteso apporre un sigillo virtuale ad ogni altra storia che intende raggrumare intorno a sé, alla propria esperienza di vita e di pensiero, ogni narrazione, ogni racconto, storico o romanzato che sia.
E’ pure scontato il raffronto con il primo volume che contempla l’era “arcaica” della famiglia, quella pionieristica, quella che descrive i primi incerti ma determinanti passi delle generazioni calabresi che, spostatesi in cerca di fortuna, nella siciliana Palermo del Settecento, che per loro rappresentava una sorta di accattivante eldorado, mano mano che vanno avanti negli anni, impongono la propria predace presenza non soltanto nei mercati commerciali e finanziari dell’isola ma, altresì, in alcuni porti del Mediterraneo, dove, scalpitando incessantemente e sgomitando senza sosta, con un camaleontismo di sopravvivenza, politica e sociale, che individua nella aristocratica famiglia siciliana degli Uzeda di Francalanza, de “I Vicerè” di Federico de Roberto (1866-1927), l’archetipo ancestrale di un modus operandi, costantemente attivo nel DNA culturale delle “mille famiglie” italiane, riescono ad imporre, proficuamente, la loro presenza in un mondo di pescecani spietati che non conoscono debolezze né remora alcuna.
I nomi ricorrenti nella famiglia, di generazione in generazione, secondo una non scritta tradizione meridionale, sono noti e, per così, dire familiari: Paolo, Vincenzo, Ignazio, Giulia, Giovanna, Franca. Sono essi che, più nel bene che nel male, hanno scandito, quasi con monotonia onomastica, sia la storia genealogica che quella economica della Sicilia e dell’intera Penisola italiana: per un lungo lasso di tempo, che inizia dalla prima metà del XVIII secolo, per concludersi nella prima metà del “secolo breve”.
Ci sono differenze tra il primo volume, I Leoni di Sicilia, del 2020, e quello di cui mi sto occupando in questi momenti! La risposta è affermativa! Non fosse altro che per la diversità generazionale dei protagonisti e dei loro comprimari ma, anche e soprattutto, per la temperie cronologica nella quale i Florio hanno operato e le situazioni che, spesse volte, loro malgrado, essi hanno dovuto affrontare.
Ma, come succede sempre in qualsiasi storia: politica, economica, culturale, finanziaria, la tensione impetuosa degli inizi, lascia sempre il campo alla sedimentazione, alla quiete riflessiva della quotidianità e del piccolo cabotaggio e del rassodamento giornaliero. Non ci si può fare nulla. E’così! E’la legge jugulatoria della natura che stringe al collo il virtuale suo capestro fino a soffocare ogni uomo, ciascuna donna che si esibisce sul rutilante palcoscenico, prima della cronaca e, quindi, della storia.
Le pagine del conclusivo volume della Auci registrano a pieno, con meticolosa acribia, questa parabola al tempo stesso esaltante e nostalgica, di quella nostalgia che i tedeschi indicano con il termine di sehnsucht, ossia di aspirazione insopprimibile a ciò che sfugge, di desiderio afflittivo di quello che si sa che ormai sia impossibile da ottenere - di una schiatta che, tra l’altro, si è spesa, generosamente, a differenza di altri nuclei familiari, nelle manifestazioni sportive, nel sociale, con lungimirante previdenza, di cui rimane una notevole traccia, attualmente, nella Palermo del XXI secolo.
la bambina si è messa a raccogliere conchiglie…Avrà dieci anni o poco più”Idda è me’ nipute, figghia di me’ figghiu Ignazio”, spiega il vecchio. La prende per mano, la fa avvicinare. “ Come a vostru patri lo chiamai…E puru idda” Idda si chiama Giovanna, come a vostra matri che è stata ‘na fimmina buona assai cu’ tutti nuatri,”…Tutti conoscono la vostra storia, don Ignazio. Voi, vostro fratello, la vostra famiglia…Ci sono stati tanti cristiani ricchi e importanti a Palermo, ma non come a voi. Vuatri siti i Florio.
”Vero è”. Si gira, sorride alla bambina e al vecchio. “Gli altri sono gli altri. Noi siamo i Florio” ( p. 663).
In questa sequenza conclusiva, dell’imponente romanzo storico e psicologico su di uno spicchio narrativo in cui è stata rappresa l’indagine sulla società italiana e meridionale, in particolare, è raggrumato lo spirito autentico dell’intera rievocazione sui Florio, che hanno brillato di luce propria per capacità imprenditoriali, sagacia nella conduzione degli affari, capacità manageriali, avvedutezza nei rapporti con il mondo della politica e delle istituzioni. Ma, una luce, una stella, tra tutte, ha irradiato di sé l’intera dinastia. Essa risponde al nome di donna franca Florio (1873-1950), nata Francesca Paola Jacona, baronessa di San Giuliano, sposa non sempre felice di Ignazio (1868-1957).
A costei, alla splendida donna che, come un sole ha inondato del suo stile sofisticato la società italiana ed europea dei suoi anni d’oro, ha dedicato un preciso omaggio Fabrizio Sarazani, inarrivabile aedo dell’aristocrazia romana durante il fascismo: Ricordo chiaramente…donna Franca Florio – scrive Sarazani nel suo impareggiabile volume di costume e di memorie, Alla corte del Duce, edito poi nel 2013-2015 –…Appariva bellissima e regale come se volesse rispettare l’immagine del raffinato ritratto che le aveva fatto Giovanni Boldini.
…Conobbi Franca florio a Viarggio proprio negli anni in cui la favolosa fortuna finanziaria dei Florio si andava spegnendo (pp. 56-57).
Poi, con essa, si spense, in concomitanza, anche un certo modo italiano e meridionale di fare impresa. Paternalistico, sì; benevolente, pure; protettivo, sempre. Mai snobistico, però. Il che, nell’ambito degli standard dell’Italia umbertina, prima, e di quella fascista, poi, risulta essere stata tanto. Anzi, tantissima!