“La vita di chi resta” porta in libreria il delicato tema del suicidio

Lo scrittore Matteo B. Bianchi racconta la tragica esperienza di aver vissuto il suicidio di una persona amata

di Chiara Giacobelli
Libri & Editori

Che cosa significa sopravvivere a chi si ama, se quest’ultimo – per ragioni spesso difficili da comprendere – sceglie di andarsene per sempre? Matteo B. Bianchi lo racconta in La vita di chi resta, edito da Mondadori, per far sentire meno soli coloro che stanno affrontando una situazione simile.

Quando, qualche mese fa, ho letto nella newsletter della casa editrice Mondadori il titolo di questo nuovo libro in uscita, ne sono rimasta subito colpita; successivamente, tenendolo tra le mani e iniziando a sfogliarne le prime pagine, mi sono appuntata le domande che avrei voluto fare all’autore. Tuttavia, arrivata alla fine ho riposto il romanzo nella mia libreria e mi sono resa conto che Matteo B. Bianchi aveva magicamente già risposto ad ogni mio dubbio, ogni curiosità, quasi fosse in grado di connettersi alla mente del pubblico a cui questa storia è destinata. Se accade qualcosa del genere – un fenomeno effettivamente molto raro – significa che lo scrittore in questione non ha soltanto narrato un insieme di fatti traendo spunto dalla realtà, ma è arrivato ad aprire del tutto il proprio cuore e ha riversato su carta la sincera verità, non tralasciando niente, neppure le parti più sconvolgenti o toccanti. D’altro canto, lo afferma lui stesso a pagina 140: “Dovessero chiedermi cosa c’è di vero in questo libro, risponderei, senza esitazione: tutto”.

La vita di chi resta, recentemente pubblicato da Mondadori, è un flusso di pensieri non cronologici che Matteo B. Bianchi trasforma in una serie di piccoli racconti nel racconto: ogni capitoletto si focalizza su un ricordo, un’emozione, un dolore, una reazione, un tentativo di andare avanti e una ricaduta a tradimento. Già autore di romanzi e programmi televisivi/radiofonici di successo, Matteo ha sempre mantenuto un certo tono di leggerezza e allegria nelle sue opere: niente – neppure il suo comportamento in pubblico – lasciava presagire che dentro di sé nascondesse una tragedia del genere e che, a poco a poco, stesse elaborando il lutto, fino ad essere pronto per scriverne pubblicamente. Una delle domande che mi sono posta quando ho compreso che a suicidarsi era stato l’ex fidanzato di Matteo all’incirca vent’anni fa, è stato come mai egli abbia aspettato così tanto prima di trarne un libro. Ancora una volta, la risposta sono riuscita a trovarla tra le righe: “Perché ho impiegato tanto a raccontare questa storia? Non ho una risposta e ne ho moltissime. Mi verrebbe da dire che per cominciare uno deve raccontare a sé stesso la vicenda e non esistono parole univoche per farlo. È un racconto che cambia con il tempo, si evolve, trova nuovi termini e nuove forme, cresce. Matura con te”.

Dunque, dal momento del fatto a quello della scrittura avviene un vero e proprio processo interiore di elaborazione e superamento del lutto, sebbene sia chiaro che certe cicatrici possono soltanto smettere di bruciare come fuoco, ma non guariranno mai del tutto. In fondo, è proprio questa “la vita di chi resta”. Nel caso specifico, la tragedia in questione consiste nel suicidio dell’ex compagno di Matteo; ex di appena pochi mesi, dopo che per sette anni i due si erano amati, avevano vissuto insieme, condiviso gioie e litigi, si erano quasi resi indispensabili l’uno per l'altro, tanto da arrivare a pensare di essere una delle cose più belle che fosse loro capitata nella vita. Chiunque abbia sperimentato una relazione di una tale intensità sa bene che essersi lasciati o meno da qualche giorno, mese o anno non fa alcuna differenza; ancor più, se il luogo scelto dalla persona amata per impiccarsi è niente meno che la vostra casa e il destino (o la premeditazione) vuole che a ritrovare il cadavere siate proprio voi, con tutto ciò che questo comporta.

Nel libro a cui Matteo dà forma – insolito, crudo nella sua realtà senza fronzoli, commovente, inquietante e magnetico – si rincorrono i momenti che hanno preceduto il fatidico gesto e quelli che vi hanno fatto seguito; inevitabilmente, chi resta è portato a rileggere ogni singola parola, ogni cavillo, ogni dettaglio sotto una luce diversa, un faro acceso a dirci di continuo: e se fossi stato più accorto? Se avessi evitato di fare questo o quello, sarebbe successo lo stesso? Se avessi dato più peso agli avvertimenti? Se lo avessi ascoltato, anche quando pensavo che stesse solo giocando? Se, insomma, fossi stato in grado di salvarlo? In coloro che subiscono un lutto a causa di un suicidio il senso di colpa diventa un tarlo costante e distruttivo che va ad aggiungersi al dolore per la perdita. Per anni, forse per sempre, le persone che sopravvivono a chi ha scelto di togliersi la vita si chiederanno se si sarebbe potuto cambiare in qualche modo lo svolgersi degli eventi, desiderando l’impossibile: riavvolgere il nastro del tempo.


 

Un’altra delle domande che chi resta si pone incessantemente – anche perché tutti attorno sembrano chiedersi la stessa cosa – è: perché lo ha fatto? Spesso, tuttavia, il perché era già evidente prima della morte, solo che non si è stati in grado di comprenderne la portata, o di restare, o di aiutare, pensando di non averne i mezzi. Il fenomeno del suicidio, d’altra parte, è troppo vasto per essere considerato un mero problema personale e psicologico; esso è anche la conseguenza di un malfunzionamento sociale, relazionale, spesso legato ai valori che il sistema capitalistico impone e ai preconcetti attorno ad alcune scelte controcorrente, poco convenzionali. Scrive a tal proposito Matteo nel suo libro: “Si calcola che nel mondo avvenga un suicidio ogni 40 secondi. Ogni anno più di un milione di persone si toglie la vita (…). Si ipotizza che i tentativi non riusciti siano dieci volte tanto. Solo in Italia si suicidano in media circa 4000 persone l’anno. L’Organizzazione mondiale della sanità ha classificato il suicidio come dodicesima causa di morte nel mondo”.

Sono dati preoccupanti, a fronte dei quali, però, continua a non esistere una risposta comunitaria, sociale, medica, psicologica e anche familiare adeguata. Ancor meno viene fatto per coloro che sopravvivono al suicidio di una persona cara, se non – ultimamente – la nascita spontanea di alcuni gruppi di supporto sparsi per l’Italia. È proprio per queste persone in primis che Matteo B. Bianchi ha deciso di scrivere questo libro: lo strumento che avrebbe desiderato avere a sua disposizione vent’anni fa, quando si consumò la tragedia. All’epoca, invece, si ritrovò totalmente solo e nessuna delle panacee che tentò per superare quel dolore immenso – psicoterapia, gruppi di ascolto tra i più vari, medici, pranoterapeuti, persino sensitivi – fu in grado di aiutarlo realmente. Oggi qualcosa è cambiato ed è per questo che il romanzo di Matteo si pone anche come un elemento utile per far comprendere che non si è più soli, in quanto ora esistono diverse realtà pronte a sostenere chi stia vivendo una situazione simile.


 

“Ciò che il sopravvissuto cerca non è la remissione del dolore, perché sa che è impossibile. Più che altro anela a una tregua, prega per un breve armistizio. Qualche minuto con la testa sopra la superficie dell’acqua, in cui tornare a respirare a pieni polmoni, prima di immergersi di nuovo in quella perenne apnea”. La storia di Matteo, come molte altre, testimonia che uscire da una sofferenza paralizzante si può: qualche mese dopo la morte dell’ex compagno, l’autore conobbe un ragazzo con cui riuscì a condividere la sua esperienza, si sentì compreso nel terreno in comune che avevano e si innamorò di nuovo. Ovviamente niente sarà mai più come prima e quel pensiero, quel senso di colpa, quel desiderio di riavvolgere il nastro resterà per sempre; ma quantomeno la vita andrà avanti e la tragedia diventerà a poco a poco più sopportabile. “Li sentivo i tentacoli della disperazione che mi sfioravano, mi lusingavano con la loro bava nera, mi avvolgevano caldi e rassicuranti, siamo noi, i tuoi compagni di questi ultimi mesi, ci senti?, ci riconosci?, siamo il tuo quotidiano, il tuo standard. Siamo la tua realtà. Mi sono chiesto, di nuovo: vuoi continuare a vivere? E mi sono obbligato a rispondere”. 

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