Cronache
Lo Stato è incapace di gestire i beni confiscati. I buchi del codice antimafia
Montagne di debiti scaricati sugli amministratori giudiziari che hanno preso in gestione beni e società confiscate
Lo Stato è incapace di gestire i beni confiscati. I buchi del codice antimafia
Va bene la cattura dei grandi latitanti, ma quando poi si tratta di gestire i beni tolti alle mafie o alla criminalità comune lo Stato raramente mostra la stessa efficienza. Addirittura, le mancanze si trasformano troppo spesso in disastri se si tratta di portare avanti, in particolare, aziende e attività economiche strappate all’illegalità. I numeri parlano chiaro: su circa 45mila immobili finora confiscati quasi 20mila sono stati destinati e riassegnati ai sensi del Codice antimafia, mentre gli altri 25mila sono ancora in gestione ad amministratori giudiziari o all’Agenzia nazionale per i beni sequestrati e confiscati (Anbsc) sotto l’egida dei tribunali.
Invece sul fronte delle imprese, secondo i dati di Libera, quelle confiscate e destinate sono 1.761, mentre le aziende ancora in gestione sono 3.366. Ma quante di esse sono realmente attive? Qui casca l’asino. L’estate scorsa l’allora Guardasigilli Marta Cartabia fornì percentuali desolanti: le imprese in concreto sul mercato erano solo il 4,4% del totale definitivamente confiscato e riassegnato e il 6,5% di quelle ancora in gestione.
Insomma, lo Stato non sa fare il manager. Fallisce miseramente quando si tratta di rendere la legalità conveniente dal punto di vista economico e di offrire un modello di sviluppo sano, alternativo a quello delle organizzazioni criminali che ancora monopolizzano alcune aree del Paese. Certo, un prefetto non ha le competenze di un imprenditore.
E in alcuni casi nemmeno un commercialista o un avvocato che gestisce l’azienda confiscata per conto del giudice delegato. Eppure c’è un ceto di amministratori giudiziari, oltre 3.700, che ci mette passione, dedizione e know-how. Ma che spesso si trova a combattere in trincea a mani nude, si cala in realtà difficili senza ricevere dallo Stato i giusti strumenti e senza poter contare su un sistema di regole realmente efficienti. I malumori serpeggiano, il malcontento cresce, anche se in pochi vengono allo scoperto. E persino il Codice antimafia finisce sul banco degli imputati.
Cristiana Rossi, invece, non ha paura. È una ragioniera iscritta alla sezione A dell’albo dei dottori commercialisti, revisore legale, curatrice fallimentare, Ctu del Tribunale civile e delle Imprese e della Corte d’appello di Roma. Ma Rossi è anche perito ed è iscritta all’albo degli amministratori giudiziari, sezione esperti in gestione aziendale (circa 1.800 professionisti), e coadiutore dell’Anbsc. Ne ha passate troppe, il suo rapporto con le istituzioni si è trasformato in un incubo kafkiano e ad Affaritaliani confessa: “La nostra interazione con la Pa è allucinante. Agenzia delle entrate, Agenzia delle entrate riscossione, Inps o Ispettorato nazionale del lavoro finiscono per combatterci come se fossimo noi gli imprenditori collusi con la criminalità”.