"Tre ciotole", Affari recensisce il libro di Murgia: "Visione graffiante"

Edito da Mondadori, “Tre ciotole. Rituali per un anno di crisi” è il nuovo libro di Michela Murgia. La recensione di Affaritaliani.it

di Chiara Giacobelli
Michela Murgia IPA
Libri & Editori

Michela Murgia e il nuovo libro "Tre Ciotole". La recensione di Affaritaliani.it

Racconti ambientati in tempo di pandemia: è questo Tre ciotole. Rituali per un anno di crisi, una raccolta che vede diversi protagonisti uniti da impercettibili legami. Michela Murgia ci fa riflettere e sorridere con il nuovo libro edito da Mondadori.

Michela Murgia è una forza della natura quando parla, quando interviene su argomenti scottanti, quando realizza podcast, quando è ospite alla radio o in tv e, ovviamente, quando scrive. Ne è un esempio Tre ciotole. Rituali per un anno di crisi, il suo nuovo libro edito da Mondadori, che raccoglie dodici racconti aventi per protagonisti uomini e donne quanto mai diversi tra loro, eppure in qualche modo legati.

Il primo è probabilmente il più personale degli scritti, Espressione intraducibile, poiché è proprio in esso che la Murgia parla della malattia che l’ha colpita, del cancro, di quel momento terribile in cui si riceve la diagnosi e si fa fatica anche solo a comprendere che cosa stia avvenendo. In parte fiction, in parte autobiografia, tra queste righe viene fuori la scrittrice e l’artista che ha bisogno di dare un nome alternativo al tumore per non dover usare quella parola e alla fine sceglierà la sua traduzione in coreano.

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Dall’altra parte c’è la figura del medico – la stessa che ritroveremo poi protagonista di un racconto successivo – all’apparenza distaccato, in realtà – lo scopriremo in seguito – preoccupato per i contagi sempre più numerosi da Covid-19 e impegnato nell’impresa quasi impossibile di continuare a vedere la propria famiglia senza rinunciare al lavoro.

“Dove ho sbagliato?” è la domanda che Michela Murgia pone al dottore quando apprende l’esito infausto delle analisi. Un interrogativo tanto inutile – perché in realtà nessuno potrà mai rispondere ad esso – quanto inevitabile: chiunque abbia ricevuto la comunicazione di una malattia potenzialmente mortale prima o poi deve passare da qui.

La spiegazione del dottore tuttavia la sorprende, e colpisce in effetti anche il lettore, dando avvio a un ragionamento al contrario: “Siamo essere complessi, signora… non credo si possa definire la questione in termini di sbagli suoi. Gli organismi sofisticati sono più soggetti a fare errori. È il sistema che ogni tanto si ingarbuglia, la volontà non c’entra (…). Mi ha detto che scrive romanzi, un bellissimo lavoro, ma è molto complicato. Nessuna specie in natura lo sa fare, solo gli esseri umani (…). Preferirebbe non saper fare nessuna di queste cose a patto di non ammalarsi mai? Gli organismi unicellulari non sviluppano neoplasie, ma non imparano lingue. Le amebe non scrivono romanzi”.

Ecco allora che il punto di vista sulla malattia si ribalta: essa diventa una parte di noi in quanto esseri umani; tanta complessità ci rende fragili, la sensibilità ci toglie certezze. Ma in fondo, ragiona la Murgia, ne vale la pena. “Quello che doveva essere un avversario da distruggere le era appena stato dipinto come un complice della sua complessità, una parte disorientata del suo corpo sofisticato, un cortocircuito del sistema in evoluzione, niente di più di un compagno che sbagliava”.

Il primo racconto, con questa considerazione molto bella e particolare a cui Michela Murgia ha dato voce anche nel corso di diverse interviste e presentazioni, contiene in nuce i tratti caratteristici di tutto il libro: questioni di non semplice risoluzione, sulle quali vale la pena di riflettere; svolte nel modo di vedere un problema; punti di vista diversi che tuttavia riescono a incontrarsi e intrecciarsi; capacità di mettersi nei panni di individui assai distanti tra loro per età, genere, classe sociale, livello culturale, opinioni, tendenze politiche o sessuali, situazioni sentimentali.

La raccolta è quindi uno scorrere di vite, di pensieri e di episodi che ci danno il la per proseguire da soli la riflessione, introducendo uno sguardo spesso inedito.


 

Vi è, ad esempio, la vedova che deve fare i conti con il senso di colpa per la morte del marito; l’amante divenuta moglie ma ugualmente insoddisfatta e quindi alla ricerca di altro; la donna di una certa età che ha bisogno di un compagno bizzarro – la sagoma cartonata di un celebre cantante coreano – per stemperare solitudine e amarezza; la colf con un chiaro senso del dovere e un’idolatria nei confronti del corpo militare. E ancora familiari che si allontanano, si riscoprono, fingono, si tradiscono, si perdono per poi ritrovarsi; coppie che si lasciano ma non sanno accettare la fine del proprio amore.

Ogni racconto merita di essere letto con attenzione, ma se ne dovessimo consigliare uno tra i tanti, brilla per simpatia e per originalità Utero in affido. Protagonista è una trentenne gay che non sopporta i bambini: questa sua avversione per chiunque abbia meno di diciotto anni è resa in maniera ironica, buffa e veritiera, con non poco sarcasmo che risulta però sincero, goliardico, spassosissimo.

A mano a mano che si procede nella lettura, si comprende che la donna sta cercando una gravidanza per sottoporsi all’utero in affitto (che qui la Murgia chiama "in affido"). Non lo fa per soldi né per empatia nei confronti di un’altra coppia arcobaleno, ma per il bene che vuole al suo migliore amico, il quale desidera un figlio con la propria compagna e non riesce ad averlo.

Allora eccolo, il caso di cui nessuno parla ma che può senza dubbio esistere: una gravidanza "in affido" portata avanti con amore e consapevolezza per il puro e semplice bene che si vuole a qualcun altro, senza ricatti, senza giri di denaro, senza neppure il dover discutere se sia giusto o meno che quel bambino abbia un genitore solo o due omosessuali. Questa è la storia che manda a monte tutti i pregiudizi e le critiche, mai neppure contemplata per il fatto che viviamo ormai in un mondo in cui un gesto simile non ci sembra possibile. E su questo ci sarebbe tanto da riflettere.

È un bel libro Tre ciotole. Rituali per un anno di crisi di Michela Murgia e le auguriamo che ne possa scrivere tanti altri così vivaci, profondi, intensi, perché della sua visione graffiante, unica e acuta c’è ancora bisogno. Per chi fosse interessato ad approfondire, di pochi giorni fa è la videointervista rilasciata a Vanity Fair in occasione di un servizio fotografico e giornalistico, dove Michela dice di aver dovuto attendere cinquant’anni per scoprirsi bella.

In fondo, sentirla parlare del valore della moda, in quanto capace di trasmettere dei contenuti liberatori e di innovazione rispetto alla tradizionale visione di mondo in un registro che tutti possono capire, è un po’ come sentirla parlare di sé, che attraverso la scrittura fa proprio questo.

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