Marketing musicale: i 15 errori più gravi della storia, da Sanremo ai Beatles

Il talento non basta: anche i migliori artisti possono commettere gravi errori sul piano commerciale, comunicativo e del management

Di Lorenzo Zacchetti
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Marketing

Le decisioni più sbagliate nella storia della musica

 

La musica è principamente arte e quindi soggetta a valutazioni molto soggettive sul talento e le capacità dei vari interpreti e compositori. Tuttavia, la musica è “anche” un enorme business. Nonostante la fase storica decisamente difficile per il mercato discografico, che ancora sta cercando un modello idoneo per cavalcare la trasformazione digitale, a livello globale il business è stimato intorno ai 15 miliardi di euro. Quindi, oltre a bravi musicisti e cantanti intornati, è necessario anche chi si occupa di marketing e management, perchè le scelte sbagliate possono compromettere una carriera.

E, come vediamo in questa classifica, anche gli artisti più rinomati hanno commesso svarioni pazzeschi.

Marketing musicale: i 15 errori più clamorosi della storia


15) Il Festival di Sanremo, tra polemiche e successi mancati

Non sempre chi trionfa sul palco dell’Ariston poi conquista anche la vetta della classifica. Anzi, c’è chi pensa che andare male al Festival porti fortuna: chi lo spera è sicuramente Tananai, ultimo nel 2022, che sarebbe felice di replicare il successo avuto da due leggende come Vasco Rossi e Zucchero, arrivati a fondo classifica nei primi anni Ottanta. Vincere Sanremo non è affatto garanzia di successo, come dimostrano sia Tiziana Rivale (“Sarà quel che sarà”, 1983) che i Jalisse (“Fiumi di parole”, 1997), autentiche meteore. Non è infrequente che l’annuncio del vincitore susciti polemiche molto accese. Tra i casi più famosi, si ricorda il secondo posto di Elio & le Storie Tese nel 1996 con “La terra dei cachi”, dietro Ron & Tosca con “Vorrei incontrarti tra cent’anni”: secondo i rumors tra gli addetti ai lavori, la band milanese sarebbe stata penalizzata nonostante il verdetto favorevole della giuria. Nell’edizione 2010 fu addirittura l’orchestra del Festival a ribellarsi al verdetto: i musicisti lanciarono in aria i loro spartiti in segno di protesta contro l’annuncio dei primi tre classificati, ovvero Valerio Scanu sul gradino più alto del podio, il trio Pupo-Emanuele Filiberto-Luca canonici al secondo posto e il favorito Marco Mengoni solo terzo. 

14) Menti semplici, scelte cervellotiche

Curiosamente, il più grande successo commerciale dei Simple Minds è stato una canzone che non volevano incidere, non avendola scritta in prima persona. Parliamo ovviamente di “Don’t you (forget about me)”, il cui famoso “la/la-/la/la-la” finale avrebbe dovuto inizialmente essere rimpiazzato da un testo vero e proprio, ma il cantante Jim Kerr non ci voleva perdere troppo tempo, non credendoci fino in fondo. Ancora meno lungimiranti furono Billy Idol e Bryan Ferry, che scartarono il brano prima che finisse agli scozzesi. Da parte loro, i Simple Minds sono spesso inciampati in scelte sbagliate. Dall’esordio “Life in a day” pubblicato quando secondo gli stessi autori ancora non era pronto, all’incapacità di fare sintesi che nel 1981 portò alla pubblicazione di un doppio album, “Sons and Fascination/Sister Feelings Call”, in seguito venduto come due album separati. Le controversie con manager e discografici hanno avuto il loro picco nel 2000, quando il gruppo rimase senza contratto e l’album “Our secrets are the same” venne rinviato e poi piratato su Internet. In quel momento, i Simple Minds sembravano non avere più futuro e Kerr decise di fare l’albergatore in Sicilia, dove tuttora vive. Il loro ultimo disco è uscito lo scorso ottobre e si chiama “Direction of the heart”… come il lato B di una canzone dell’album precedente, ripubblicata in versione aggiornata. Per non smentirsi mai.

 

13) Il lungo addio dei R.E.M.

Alla Warner Bros non riescono a perdonarsi di aver decisamente sopravvalutato i R.E.M., offrendo loro un contratto da 80 milioni di dollari per cinque album. Un’attenuante c’è: la scelta risale al 1996, quando era ancora vibrante l’eco di album di grande successo come “Out of time” e “Automatic for the people”. Blindare la band di Michael Stipe sembrava la cosa più furba da fare, ma la successiva uscita dal gruppo del batterista Bill Berry aprì una crisi che non si è mai risolta. Il successivo album “Up” (1998) si rivelò un flop commerciale clamoroso, inaugurando un declino che si è trascinato stancamente fino al 2011, con lo scioglimento del gruppo. Giusto il tempo di pubblicare i suddetti cinque album incautamente prenotati, ma la festa era finita ormai da tempo.

12) Bill Gates: anche i ricchi piangono


 

Quella tra Apple e Microsoft è sempre stata una lotta a tutto campo e la musica non fa eccezione. Nel 2006, per rispondere all'enorme successo dell'iPod, l'azienda di Bill Gates lanciò sul mercato americano il mediaplayer Zune, sul quale nutriva grandi speranze. Rispetto all'iPod aveva infatti interessanti funzionalità aggiuntive: al momento del lancio era l'unico lettore in grado di scambiare dei file con altri device, grazie alla connessione WiFi. Il 2007 avrebbe dovuto essere l'anno dello sbarco in Europa, ma i bassi volumi di vendita cambiarono i piani di Microsoft e quindi dalle nostre parti Zune non si è mai visto. Nonostante l'aggiornamento del prodotto con modelli di memoria più ampia, nel 2008 lo Zune era ancora relegato a una misera quota del 4% del mercato statunitense. Nel 2011 la sua produzione è cessata definitivamente.

 

11) La Pepsi e lo zucchero amaro dei Rolling Stones

Il successo di uno spot pubblicitario è spesso legato alla musica scelta come colonna sonora. Ma a volte queste scelte sono clamorosamente improprie. Un caso eclatante è la Pepsi, che nel 1998 per la campagna della sua famosa bevanda scelse “Brown Sugar” dei Rolling Stones. L’intenzione era riferirsi al gusto dolce che si ottiene mescolando lo zucchero grezzo con la melassa, ma nello slang “Brown Sugar” indica un particolare tipo di droga. Non solo: il testo del brano fa riferimenti molto espliciti a stupro, sesso interraziale e violenza, ragione per la quale negli ultimi anni gli Stones hanno accuratamente evitato di suonarlo nei loro concerti. Un abbinamento non certo efficace per un brand popolare tra le famiglie di tutto il mondo.

 

10) Factory Records: fare la storia, ma senza fare soldi

Se Manchester è una città iconica per gli amanti della musica, in gran parte è merito della Factory Records, casa discografica fondata da Tony Wilson nel 1979. Nel corso dei suoi 13 anni di storia, la Factory ha profondamente segnato la propria epoca con oltre 70 artisti, tra i quali spiccavano i Joy Division. L'etichetta è sopravvissuta anche al drammatico suicidio del leader della band, Ian Curis, nel 1980: anzi, la pubblicazione postuma dell'album “Closer” si è rivelata un grande successo, con il singolo “Love will tear us apart” in cima alle classifiche. Non solo, i membri superstiti hanno dato vita ad un'altra band, i New Order, regalando alla Factory ulteriori successi: “Blue Monday”, del 1983, è stato quello più clamoroso. Nel contempo, la stessa proprietà aveva aperto sempre a Manchester la Hacienda, nota anche come Fac 51, che per alcuni anni fu il club notturno più famoso del mondo. Purtroppo, divenne famoso anche per motivi negativi, come le perquisizioni per il diffuso uso di droghe e alcune rapine a mano armata. Il declino della casa discografica ha avuto il suo picco nel 1992, quando un'altra band molto famosa, gli Happy Mondays, stava registrando l'album “Yes Please”. Tra la location scelta (le Isole Barbados) e la dipendenza del cantante Shaun Ryder dal crack, dal budget iniziale di 150.000 sterline si arrivò a un conto finale di oltre il doppio. Nel contempo, i New Order spendevano ancora di più per il loro disco “Republic” e il disavanzo tra uscite e entrate mise la Factory in ginocchio: già nel 1992 ne venne decretato il fallimento. Nonostante i vari tentativi di rilanciare etichetta e locale con altri nomi, Tony Wilson è letteralmente finito in miseria: nel 2007, a 57 anni, è morto per arresto cardiaco, in seguito a un cancro al rene che non riuscì a curare per mancanza di mezzi economici. Come lui stesso disse prima della sua tragica fine: “Sono stato l'unico nel business della musica a non fare i soldi, ma almeno sono riuscito a fare la storia”.

 

 

9) Crowdmix: due anni vissuti pericolosamente


 

Tra le tante startup che non realizzano i sogni dei loro ideatori, un flop davvero clamoroso ha caratterizzato quella fondata da Ian Roberts e Gareth Ingham nel 2015. Crowdmix doveva diventare un unicorno da un miliardo di dollari, aveva raccolto 14 milioni di sterline di finanziamenti, annoverava oltre 160 dipendenti e sedi sui due lati dell'Oceano... ma non ha mai nemmeno visto la luce. Raccontiamo allora quello che sarebbe dovuto essere: una app a metà strada tra streaming e social network, sulla quale ascoltare e commentare le classifiche create in tempo reale dagli utenti. L'idea era piaciuta molto anche agli investitori, ma forse gli entusiasmi erano stati eccessivi. Lo si era capito anche dalla sontuosa festa ad Amsterdam, con i Faithless ed altri artisti ad esibirsi sul palco, alla modica spesa di 200.000 sterline. La grandeur è continuata con gli interior designer arruolati per arredare le sedi di Londra e Venice Beach, l'ingaggio di un'agenzia di comunicazione da 60.000 sterline di parcella mensile e investimenti faraonici sia sul fronte manageriale che su quello tecnico. A questo proposito, ogni idea di miglioramento dell'app comportava lunghe rielaborazioni e rinvii del suo rilascio. Arrivati a un regime di spese consolidate tra uno e due milioni di sterline ogni mese, a fronte di ricavi ancora pari allo zero, la realtà ha bussato alla porta: è subito parso chiaro che i primi licenziamenti e ritardi nel pagamento degli stipendi non sarebbero bastati a scongiurare l'inevitabile, ovvero un clamoroso fallimento.

8) Sony: quando le misure contano


 

Nel 1992 Sony lanciò un nuovo formato audio: il MiniDisc. Poco dopo, altri produttori come Sharp, Panasonic e JVC seguirono l'azienda giapponese con prodotti analoghi. L'idea di fondo era semplice: grazie alla compression “ATRAC” il MiniDisc garantiva la stessa qualità di un CD normale, ma era più piccolo nelle dimensioni, meno costoso e più facilmente riscrivibile, quando ancora i CD-RW non erano diffusissimi. Sponsor della Juventus, Sony applicò il marchio “MiniDisc” sul petto dei giocatori, ma la mossa non servì a sciogliere la glaciale freddezza delle case discografiche.
Da parte loro, c'era ben poca motivazione ad adottare un formato più piccolo ed economico, anche perché dal mercato giungevano ben altre preoccupazioni. Con la diffusione del formato mp3 a cavallo tra la fine degli anni '90 e l'inizio del 2000, i CD divennero rapidamente obsoleti e i MiniDisc non ebbero nemmeno il tempo di provare a inserirsi nella contesa. Dopo il clamoroso flop commerciale, la produzione fu definitivamente dimsessa nel 2001.

7) Napster e i Metallica: due torti non fanno una ragione

Lanciato nel 1999 da Shawn Fanning e Sean Parker, Napster era un programma di file-sharing che permetteva di scambiare musicali gratuitamente. Un vero e proprio paradiso per gli appassionati di musica, che fino ad allora erano stati costretti a pagare prima per i vinili e poi per i CD. Infatti, oltre 80 milioni di utenti ne approfittarono largamente, ma per poco: nel 2001 Napster fu costretto a chiudere i battenti, sommerso dalle cause musicali da parte dei titolari del copyright. A guidare la rivolta furono i Metallica, furiosi per il fatto che il loro brano “I disappear” fosse finito su Napster prima ancora della sua pubblicazione ufficiale. Oggi Spotify e Apple Music offrono un servizio molto simile, ma legale, mentre Napster, pur essendo arrivato per primo, è finito male. Tuttavia, si è trattato di un raro caso “lose-lose”, visto che ci hanno perso anche i Metallica: la scelta di pubblicare i nomi di 30.000 loro fans, chiedendo loro di uscire da Napster, è stata quella che Lars Ulrich ha poi definito “non certo la più furba mossa di pubbliche relazioni di tutti i tempi”.

6) Il dynamic pricing e i concerti inarrivabili

Da tempo in voga negli Stati Uniti, il dynamic pricing è una sorta di estremizzazione della legge di mercato: più sale la richiesta per un certo evento, più sale il prezzo del biglietto (o scende in caso contrario). Questo comporata che il costo si modifichi in tempo reale, anche tra il momento in cui scegliete il biglietto del concerto che sognate e quello in cui ne completate l'acquisto in Rete. Un meccanismo identico a quello dei biglietti aerei, che chiunque ha sperimentato comprandoli su Internet. Il problema è che nell'era della musica digitale gli show dal vivo sono diventati la principale fonte di incasso per gli artisti, i quali partono da prezzi già piuttosto alti e con questo meccanismo arrivano facilmente a chiedere ai fan alcune migliaia di dollari per un solo biglietto. Partecipare a uno spettacolo dal vivo sta diventando un'esperienza sempre più per pochi. C'è chi lo considera un'evoluzione inevitabile e chi invece ritiene che in questo modo le stelle della musica si siano messe sullo stesso piano dei bagarini, con il concreto rischio che a medio-lungo termine anche la loro popolarità precipiti allo stesso livello.

 

 

5) In quel ritornello c’era un po' troppa Verve

Nel 1997 il brano “Bittersweet Symphony” regalò ai Verve una popolarità planetaria, che dura ancora oggi. Nella canzone è contenuto il campionamento di alcune parti del brano dei Rolling Stones “The last time”. Precisamente, Richard Ashcroft lo ha pescato dalla versione orchestrale contenuta nell’album “The Rolling Stones songbook”, pubblicato da Andrew Loog Oldham nel 1966 (PUOI ASCOLTARLA QUI). Per mettersi al riparo da ogni causa, Ashcroft ha diviso al 50% i diritti d’autore con gli Stones, che quindi nel corso del tempo si sono messi in tasca alcuni milioni di dollari. Tuttavia, l’azione legale è arrivata lo stesso, in quanto si contestava che i Verve avessero utilizzato un sample più lungo di qualche secondo rispetto a quelli concordati. Per oltre vent’anni si è combattuta un'aspra guerra in tribunale, che si è risolta solo nel 2019, quando Jagger e Richards hanno deciso di rinunciare a ogni pretesa, lasciando che Ashcroft fosse riconosciuto come unico autore da quel momento in avanti. Chi ha avuto, ha avuto. Chi ha dato, ha dato. 

 

4) Il principe senza nome

Brand vincente, non si cambia: è una regola aurea. Prince (all’anagrafe Prince Roger Nelson) l’ha clamorosamente violata nel 1993, cambiando il suo nome d’arte in un simbolòo impronunciabile. La sua decisione arrivò al culmine di una vera e propria guerra con la sua casa discografica, la quale non gli lasciava la libertà artistica desiderata. Il genio di Minneapolis si sentiva schiavizzato, infatti iniziò ad apparire in pubblico con la scritta “slave” dipinta sulla faccia. Per liberarsi dal vincolo, decise un cambiamento clamoroso: siccome “Prince” era un marchio registrato dai discografici, iniziò a farsi chiamare con un glifo che non corrispondeva a nessuna lettera o suono conosciuto. Disperata, la casa discografica inviò a tutte le redazioni un set di font creato apposta per riprodurre quello che tra gli addetti ai lavori veniva chiamato “The Love Symbol”. Non bastò per evitare la confusione, visto che il musicista si faceva chiamare anche “The Artist Formerly Known As Prince” (“L’artista precedentemente conosciuto come Prince”), ma anche semplicemente “The Artist” o con l’acronimo TAFKAP. Un disastro commerciale completato anche con la scelta di vietare a YouTube la pubblicazione dei suoi video. Solamente nei primi anni 2000 Prince è tornato a usare il nome che lo aveva reso celebre in tutto il mondo. Un vero e proprio suicidio di marketing, ma nel suo caso decisamente intenzionale.

 

3) Kanye West e il folle scempio della sua fortuna

Musicista e produttore di primissimo livello, Kanye West ha messo a rischio la sua enorme fortuna economica per via di alcune scelte comunicative decisamente sopra le righe. Le più gravi sono state alcune esternazioni filo-naziste e antisemite che hanno portato alla cancellazione dei succosi contratti come designer per conto di brand come Adidas, Gap e Balenciaga. Oltre ad aver bizzarramente cambiato il suo nome in Ye, si è candidato alla presidenza degli Stati Uniti nel 2020 e ci riproverà nel 2024, ma l’esito delle sue prossime avventure sarà strettamente legato alla sua salute mentale: dopo aver bollato come “un errore” la diagnosi di disturbo bipolare, recentemente ha lui stesso parlato della possibilità di essere autistico.

 

2) Gli U2, un regalo "innocente" e l’album più cancellato di tutti i tempi

“Songs of Innocence”, datato 2014, è uno dei migliori album pubblicati dagli U2 nel nuovo millennio. Tuttavia, è anche uno dei più controversi. Il motivo? Una scelta di marketing che si è rivelata completamente sbagliata: inserire l’album nella playlist di tutti gli utenti di Apple, gratuitamente. Gli U2 erano stati preventivamente pagati da Tim Cook, inoltre pensavano che il regalo sarebbe stato apprezzato dagli utilizzatori finali. Niente di più sbagliato: quella “intrusione” suscitò reazioni piccate da parte di chi non gradì la sorpresa. Bono nel suo libro “Surrender” si è assunto la responsabilità di quell’autogol: “Ho avuto questa bellissima idea ma ci siamo lasciati trasportare da noi stessi. Gli artisti sono inclini a questo genere di cose: una goccia di megalomania, un tocco di generosità, un pizzico di autopromozione e una profonda paura che queste canzoni in cui avevamo riversato la nostra vita negli ultimi anni potessero non essere ascoltate”.

 

 

1) Quando la Decca scartò i Beatles

Diciamoci la verità: non c’è talent-scout che non abbia sulla coscienza l’aver sottovalutato un futuro talento. Sono cose che capitano a tutti, ma quanto più grande è il talento messo alla porta, più grande è anche il rammarico. La casa discografica londinese Decca ha quindi commesso un errore fatale scartando i più grandi di tutti i tempi: i Beatles. Nati nel 1960, un anno dopo gli “scarafaggi” affrontarono un viaggio molto disagevole da Liverpool a Londra, sotto la nevicata di San Silvestro, soltanto per sostenere un provino con Dick Rowe. Fu lui a sentenziare che quei quattro ragazzotti non avrebbero mai avuto successo. Eppure, sappiamo tutti come è andata a finire: con 1,6 miliardi di dischi venduti in tutto il mondo, nell’arco di una carriera durata appena un decennio.

 

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