De Benedetti addio, sono stato troppo indipendente. Domani è un altro giorno

Dopo che l'azienda mi ha sostituito come direttore di Domani, ho ricevuto una ondata di affetto

Di Stefano Feltri
MediaTech

Soltanto grazie

Dopo che l'azienda mi ha sostituito come direttore di Domani, ho ricevuto una ondata di affetto. Sembra il mio funerale da vivo, ma è anche la conferma che in questi anni non abbiamo sprecato tempo


Buongiorno a tutte e tutti,

in questi anni i miei colleghi e collaboratori hanno avuto modo di conoscere i miei pregi e difetti, tra questi ultimi uno che mi è stato spesso fatto notare è di non essere particolarmente espansivo quando si tratta di apprezzamenti (e di essere magari un po’ troppo morbido nel far notare le cose che non vanno). Più in generale, ho la fama meritata di non essere uno che esprime molte emozioni.

Questa volta devo forzare la mia natura per cercare di trasmettere davvero il grandissimo senso di gratitudine che provo in queste ore.

Sono due giorni che rispondo a un messaggio al secondo, le telefonate non riesco proprio a prenderle, le mail non ho neanche iniziato a guardarle.

Vorrei soltanto dirvi grazie, a tutte e tutti, sto cercando di farlo individualmente, uno per uno, ma colgo l’occasione e lo spazio per farlo anche in modo collettivo.

Mi piacerebbe riportarne qualcuno, di quei messaggi, ma sono personali e non sarebbe giusto: dai colleghi, ai tanti collaboratori, stagisti passati per qualche mese dal nostro giornale, giornalisti vicini e lontani, magari che ho conosciuto appena, e poi perfino i politici che abbiamo preso tanto di mira che salutano e ringraziano.

La mia prima reazione è stata, forse con un eccesso di cinismo giornalistico, che mi sembra di assistere al mio funerale da vivo: mai avrei pensato di ricevere tanto affetto da persone, conosciute o sconosciute, con le quali ho interagito in un contesto che è pure sempre – e forse soltanto – lavoro.

Ma questa cascata di messaggi e telefonate mi porta a una conclusione più generale che vorrei condividere con voi.

Il senso dei giornali
Nell’epoca dei social e della comunicazione disintermediata, possiamo tutti costruirci una dieta mediatica personalizzata: le notizie circolano gratis, le opinioni non mancano, per essere persone influenti (che siano anche influencer o meno) non è certo necessario iscriversi all’albo dei giornalisti.

Intere generazioni non sanno neanche cosa sia una edicola e considerano la carta soltanto alberi inutilmente morti.

In questo contesto i giornali possono sembrare dei ferrivecchi, chi ha bisogno di una testata sotto la quale raccogliere fatti e opinioni? Non basta aprire Instagram o TikTok o iscriversi a una newsletter?

Quando è nato Domani, nel 2020, abbiamo fatto tutti la scommessa che per i giornali uno spazio ci fosse. Magari non enorme, ma rilevante.

Dopo tre anni e che quell’esperienza è finita, almeno per me, posso confermare che uno spazio c’è eccome: perché in questi anni Domani è stato molto più di un contenitore di articoli.

Ci siamo concentrati su due cose: produrre informazione originale, che nessuno aveva e che tanti preferivano evitare che uscisse, e mettere insieme analisi, opinioni e idee che permettessero di affrontare la complessità.

Il giornalismo, inteso come generazione di contenuti e non come condivisione di notizie già pubbliche, è un bene pubblico: il mercato non ne produce abbastanza, perché costa tanto ma ritorni limitati, perché appena una notizia esclusiva, uno scoop, una inchiesta o anche una polemica entra in rete, subito diventa di chiunque voglia rilanciarla.

E i ritorni sull’investimento – cioè i benefici a fronte dei quali si sono sostenuti i costi di produzione – vanno un po’ a tutti.

Per questo, tra le tante ragioni, è così difficile raggiungere un equilibrio economico che, durante la mai gestione, Domani non aveva (ancora) conquistato.

Dunque, a cosa serve un giornale?

Alla luce delle tante reazioni che ho ricevuto in questi due giorni alla scelta dell’azienda di sostituirmi come direttore, mi sembra sempre più chiaro.

Lo dico con le parole di Giorgio Gaber, lui parlava del comunismo, ma per uno strano slittamento semantico quelle attese, speranze e desideri si applicano anche al giornalismo che abbiamo cercato di praticare a Domani.

Qualcuno era giornalista, mi viene da dire usando Gaber, perché così era “più di se stesso: era come due persone in una”.

“Da una parte la personale fatica quotidiana

E dall'altra il senso di appartenenza a una razza che voleva spiccare il volo

Per cambiare veramente la vita”

Con Domani siamo stati tutti più di un insieme di individui, una rete di intelligenze, competenze e speranze che ci ha fatto intravedere un modo diverso di impostare il dibattito pubblico e, dunque, il paese.

L’incredibile affetto di queste ore non credo vada a me come persona – molti mi conoscono appena – ma a questa idea di giornalismo e partecipazione che, assieme a decine di giornalisti e centinaia di collaboratori, ho tentato di praticare in questi tre anni.

Grazie alle risorse fornite dell’editore abbiamo potuto produrre un giornalismo di inchiesta originale (dovessi dire la cosa di cui sono più orgoglioso è l’inchiesta sugli abusi nella Chiesa, a cura di Federica Tourn sotto la supervisione di Giorgio Meletti e con le donazioni di centinaia di lettori).

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