“Cavalleria” e “Pagliacci”: la regia di Martone vince sulla musica

Il dittico verista alla Scala non tradisce nonostante i cambi di cast. Spiccano l'eterna Zilio e il "baritono in Ferrari" Olivieri

Di Francesco Bogliari
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Irina Lungu e Matteo Olivieri in “Pagliacci”. Ph Brescia e Amisano © Teatro alla Scala
Milano

“Cavalleria” e “Pagliacci”: la regia di Martone vince sulla musica

La premessa fa parte dell'articolo. E la premessa è la seguente: il vostro cronista non ha mai amato “Cavalleria rusticana”. Anzi, per dirla tutta, l’ha sempre detestata in quanto, a suo insignificante parere, massima espressione del Trucido (inteso come categoria stilistica) in musica. E quanto a “Pagliacci”, il giudizio è molto più benevolo, ma comunque non sarebbe una delle dieci opere di cui salverebbe la partitura in caso di guerra nucleare.

È esclusivamente una questione di gusti estetici personali, molto personali (per dire, il vostro cronista detesta anche il tartufo, e per questo viene sbeffeggiato da tutti quelli che vengono a conoscenza di questa rara follia) e quindi molto più che opinabili. Si limita però sommessamente a ricordare che il 1890, l'anno di “Cavalleria”, fu anche l'anno de “La dama di picche” di Ciaikovskij (dico, “La dama di picche” !!), il 1892, l'anno dei “Pagliacci” fu anche l'anno di “Werther” di Massenet e il successivo, il 1893, quello di “Manon Lescaut” di Puccini e “Falstaff” di Verdi (no, dico, “Manon Lescaut” e “Falstaff” !!!): opere, quelle coeve appena nominate, che fanno parte del dna musicale del vostro cronista, a differenza di “Pag” e soprattutto di “Cav”.

"Pagliacci" e "Cavalleria rusticana" alla Scala: il tocco del regista Martone e le performance vocali

Detto questo, lo spettacolo scaligero con la rappresentazione delle due opere è stato eccellente, soprattutto, una volta tanto, per la regia, quella di Mario Martone del 2011 ripresa da Federica Stefani, con scene di Sergio Tramonti, costumi di Ursula Patzak e luci di Pasquale Mari.

Il regista napoletano coglie di “Cavalleria” la profonda fusione tra le due dimensioni, quella religiosa e quella carnale, il rito sacro e la violenza del sangue legati dalle convenzioni sociali (il delitto d’onore). Geniale l’idea di seguire Alfio che la mattina di Pasqua prima va al bordello, poi dal barbiere, e infine entra in chiesa per assistere alla messa. Trama verista; scene, costumi e regia al contrario giocati sulla sottrazione e la simbolizzazione; senza carrettini siciliani e altra paccottiglia Zeffirelli style per intendersi. La musica è quella che è: melodia, solo melodia diremmo oggi “orecchiabile”, plateale, enfatica, poco sviluppata al di là della semplice idea tematica, sostenuta da una armonizzazione elementare. Quando il cavallo scalpita, i sonagli squillano e la frusta schiocca, e subito dopo, quando Alfio tutto contento ci fa sapere che l’aspetta a casa Lola, che l’ama e lo consola, il vostro cronista riesce a stento a trattenere l’istinto di alzarsi e andarsene.

Cast vocale: la sostituzione all’ultimo minuto di Elina Garanca per indisposizione è stata una vera disdetta, perché la cantante lettone è al momento probabilmente il miglior mezzosoprano in attività. Sostituita dal soprano Saioa Hernandez, una gran volume di voce e buoni acuti ma in evidente difficoltà nel registro medio, che suonava opaco e affaticato. Brian Jadge è stato un Turiddu dalla vocalità generosa e luminosa, bravo anche nella recitazione. Roman Burdenko (sostituto già programmato di Amartuvshin Enkhbat, che leggendo le cronache delle prime recite aveva offerto prove strepitose) è stato un buon Alfio, anche sotto l’aspetto della dizione. Ottima anche la Lola di Francesca Di Sauro.

Intervallo. È la volta di “Pagliacci”. La scena è un desolato spazio sotto il ponte di una tangenziale, ci sono delle roulottes sgangherate e un gruppo di commedianti e saltimbanchi poveri e disperati (tra parentesi, bravissimi i cinque acrobati). Anche qui la regia gioca di sottrazione, dando una ragione credibile allo squallore dell’ambiente.

La musica di Leoncavallo è molto più ricca e, se vogliamo usare una parola impegnativa, sofisticata di quella di Mascagni. Il musicista napoletano è uno che ha studiato Wagner e si sente, sebbene tra le righe. La melodia è più articolata e sviluppata, l’orchestrazione molto più ricca; la parodia della musica settecentesca nella scena di Arlecchino elegante e raffinata. Con due perle della vocalità operistica universale: il Prologo e “Vesti la giubba/Ridi, Pagliaccio”. Tonio è stato un Burdenko ancora più convincente che nella parte di Alfio, vocalmente sicuro e scenicamente autorevole. Fabio Sartori, Canio, è un professionista di lungo corso ancora a suo agio col registro centrale ma tendente all’aspro negli acuti, e a eccessi “veristi” nell’espressione (certo, l’opera è verista, ma certi effetti vocali sono, diciamocelo francamente, un po’ datati). Irina Lungu, benché febbricitante, ha saputo dare a Nedda tutte le sfumature che il personaggio richiede.

Elena Zilio: una masterclass di vocalità e interpretazione

Ho lasciato alla fine lo spazio per i due veri protagonisti vocali della serata: l’eterna (83 anni, avete letto bene, ottantatrè) Elena Zilio, che nella parte di mamma Lucia in “Cavalleria” ha tenuto una autentica masterclass di vocalità e interpretazione (così si canta e così si recita!); e Mattia Olivieri, giovane baritono in grande crescita che ha cantato e interpretato magnificamente la (purtroppo) breve parte di Silvio in “Pagliacci”. Olivieri è nato a Maranello e già lo definiscono “il baritono in Ferrari”. Farà sicuramente tanta, tantissima strada, capace com’è di spaziare in un repertorio molto diversificato, che va da Haendel, a Mozart, a Rossini, a Verdi, a Puccini.

Il direttore Bisanti fa il suo con mestiere

E il direttore d’orchestra, il milanese Giampaolo Bisanti? Certo non è Herbert von Karajan, al quale si devono le più sofisticate incisioni delle due opere, talmente “estetizzate” da renderle quasi irriconoscibili. La sua è una direzione di sicuro mestiere, senza voli e senza cadute, ma in questo caso non del tutto allineata alla regia: se questa sottrae, Bisanti spinge forte il pedale, spesso con foga ed eccessivo impeto. Ma poi, pensandoci bene, probabilmente Mascagni avrebbe pensato la sua “Cavalleria” diretta più alla Bisanti che alla von Karajan; quindi ce la facciamo andare bene.

Chi non ha bisogno di ulteriori aggettivi, perché non esistono più oltre a quelli già usati, è il Coro istruito da Alberto Malazzi. Siamo al livello tecnico ed espressivo più alto che una compagine musicale possa esprimere. Stop.

Mascagni, Puccini e il quarto segreto di Fatima

Finiamo riprendendo la logica della premessa. C'è una cosa che in tanti decenni il vostro cronista non è ancora riuscito a capire: per quale motivo Gustav Mahler, nella sua veste di sommo direttore d'orchestra, amasse Mascagni e detestasse Puccini. Uno con l'estetica di Mahler come poteva apprezzare il livornese e snobbare il lucchese? Chi sa, forse preferiva il cacciucco ai tordelli... Per chi scrive, questo è il quarto segreto di Fatima.

La recensione si riferisce alla recita di venerdì 26 aprile.