Il decreto anti-rave non lede la libertà, anzi è un atto di civiltà
Il decreto anti-rave divide l'opinione, ma la lettura del testo conferma solo che dove un diritto viene violato è giusto applicare una sanzione
Il decreto anti-rave non lede la libertà di manifestare, ma tutela il diritto di poterlo fare in tutta sicurezza
Critiche a pioggia, strali lanciati da ogni parte e in ogni direzione, contro il vituperato art. 434-bis del codice penale introdotto col decreto di legge emanato dal governo, che potremmo definire norma anti-rave.
Liberticida, negazione della libertà di espressione prevista dall’art. 3 della Costituzione, insomma, un reato che andrebbe contro ogni più elementare principio di libertà e uguaglianza, dicono politici, ma anche giornalisti, intellettuali e perfino artisti. Da umile giurista, provo a fare chiarezza.
Innanzitutto col testo, che recita così: "L’invasione di terreni o edifici per raduni pericolosi per l’ordine pubblico o l’incolumità pubblica o la salute pubblica consiste nell’invasione arbitraria di terreni o edifici altrui, pubblici o privati, commessa da un numero di persone superiore a cinquanta, allo scopo di organizzare un raduno, quando dallo stesso può derivare un pericolo per l’ordine pubblico o l’incolumità pubblica o la salute pubblica. Chiunque organizza o promuove l’invasione di cui al primo comma è punito con la pena della reclusione da tre a sei anni e con la multa da euro 1.000 a euro 10.000. Per il solo fatto di partecipare all’invasione la pena è diminuita. È sempre ordinata la confisca ai sensi dell’articolo 240, secondo comma, del codice penale, delle cose che servirono o furono destinate a commettere il reato di cui al primo comma nonché di quelle utilizzate nei medesimi casi per realizzare le finalità dell’occupazione".
Partiamo dalle critiche: si teme che possa essere usato contro le occupazioni a scuola o i pacifici raduni in piazza, organizzati, magari, per scambiarsi due chiacchiere. Viene definito un reato liberticida espressione della peggiore anima dittatoriale. Ma è davvero così? In una sola parola: no. E non per motivi ideologici, ma esclusivamente giuridici.
Infatti, i presupposti perché ci sia questo reato sono tanti, e devono essere presenti tutti. Quali sono? Innanzitutto, deve verificarsi l’invasione di terreni o proprietà altrui, pubblici o privati, quindi in assenza dell’autorizzazione del proprietario. Ciò significa che se una persona organizza una festa a casa sua con cento persone, a meno che non viva in un monolocale e possa causare disturbo alla quiete pubblica, non si commetterà nessun reato. Inoltre, deve trattarsi di raduni pericolosi per l’ordine pubblico, la salute pubblica o l’incolumità pubblica.
Quindi, una semplice processione sotto Pasqua, per citare un esempio, così come un corteo funebre, non potranno certo integrare questa fattispecie di reato, con buona pace di chi teme che ritrovarsi in piazza in comitiva per passare qualche ora in compagnia comporterà sei anni di carcere. Ma vi è di più: le persone che partecipano al raduno devono essere più di 50. E questo è un dato così oggettivo che non richiede ulteriore spiegazione. Infine, le persone che si incontrano devono essere spinte dalla volontà specifica di organizzare un raduno. E questo raduno dovrà avere le caratteristiche di pericolosità sopra descritte. Ciò comporta che un incontro casuale e spontaneo non potrà considerarsi reato. Così come non lo sarà un raduno organizzato ma non pericoloso.
Quindi, se si vuole fare una manifestazione, basta chiedere l’autorizzazione. Se si vuole protestare, basta farlo senza creare disordini. E se ci si vuole divertire, basta organizzare una festa coi dovuti permessi. Dove si vede la negazione della libertà, in tutto ciò? Io la chiamo civiltà. Semplicemente un posto, in cui il mio diritto finisce laddove calpesta quello di un altro. E dove ogni violazione di quel diritto, è giusto che sia sanzionata.
* Avvocato e Presidente dell’Osservatorio Nazionale Sostegno Vittime