Fondata sul lavoro. Qualche riflessione sul Primo Maggio

Articolo 1: "L’Italia è un repubblica democratica fondata sul lavoro"

di Giacomo Costa
Costituzione
Politica

Il RdC tende a scoraggiare il lavoro e a lasciare i suoi protetti nella povertà

La Costituzione italiana non ha un preambolo, e esordisce con un articolo 1 sintetico al punto dell’enigmaticità: L’Italia è un repubblica democratica fondata sul lavoro .

Naturalmente un documento costituzionale non è costituito di formule atomiche, ma di proposizioni che si integrano e chiariscono a vicenda. Tuttavia può essere un esercizio interessante confrontarsi con l’art. 1 senza appoggiarsi sul ben più corposo ed esplicito art. 4, che va ricordato: La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto. Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società.

Molti pensano che “fondata sul lavoro” sancisca il diritto al lavoro. Altri che identifichi nei lavoratori la componente della società più meritevole di tutela date le lunghe sofferenze passate, che non devono ripetersi nel nuovo Stato. E’ inevitabile rivolgersi alle spiegazioni e interpretazioni che furono offerte durante i lavori della Costituente. Questi certo sono molto istruttivi, ma può anche essere interessante partire da una tabula rasa. Provo a farlo: se qualcosa è un fondamento di una repubblica, non può essere un diritto. Può essere un dovere, o un valore. Io direi, un valore da cui segue un dovere. La partecipazione all’attività produttiva, se vogliamo, con un altro linguaggio, alla riproduzione sociale, non è solo una fonte, ma l’unica fonte di dignità sociale delle persone. Non è proprio la “repubblica democratica di lavoratori” che volevano i costituenti comunisti, ma vi si avvicina.

Secondo l’ineffabile Renato Brunetta, più volte Ministro del Lavoro, “stabilire che l’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro non significa assolutamente nulla”. Perché? Perché “La parte della Costituzione che esprime i valori fondanti della Repubblica ignora temi e concetti fondamentali, come quelli del mercato, della concorrenza e del merito. La Costituzione è figlia del clima del dopoguerra. Adesso siamo in un’altra Italia. Fermi restando i principi fondamentali, nei quali tutti ci riconosciamo, bisogna avere allora il coraggio di parlare anche della prima parte della Costituzione. E ritengo debbano essere rivisti pure gli articoli della Carta sui sindacati, i partiti, l’Europa”.

Viviamo dunque in un mondo di sogni, e per giunta di sogni del passato? Certo la nostra Costituzione si può anche vedere come un invito ai cittadini a condividere un grande sogno. Ma la grande popolarità del Sig. Gianluca Vacchi, che si vanta del suo status di puro rentier il cui unico fastidio è di dover sopportare una certa variabilità nei dividendi azionari che riceve, fa temere che quel sogno sia caduto, e sostituito da ben altri sogni. Brunetta però non ci suggerisce la strada edonistico-parassitaria di Vacchi: “Fermi restando i principi fondamentali, nei quali tutti ci riconosciamo.” Dunque l’art. 1 ha un profondo significato anche per lui. Invece di negarlo, avrebbe dovuto dirlo subito. Il problema è di come orchestrare l’intreccio di diritti e doveri che concorrono a realizzare un certo livello di occupazione, che in Italia è globalmente più basso che negli altri paesi europei, e presenta delle punte allarmanti nell’occupazione giovanile e in quella femminile. Brunetta non ha tutti i torti. Le istituzioni di un moderno mercato del lavoro in Italia mancano. I centri per l’impiego sono carenti. Le politiche attive del lavoro non sono mai partite, e questo non si può spiegare se non si riconosce la potenza della presa dell’idea che l’unico modo di difendere l’occupazione sia di proibire, o opporsi con decisione, ai licenziamenti. E’ stato fatto per decenni un abuso della Cassa integrazione, e quando il governo Renzi, che introdusse il primo sistema universale di sussidi disoccupazione, tentò di arrestarlo, fu subito smentito dai governi successivi, che la ripristinarono a furor di popolo.

Anche l’obiettivo di abolire la povertà si muove ancora tra la realtà e il sogno. Come nel caso del pieno, o almeno di un maggior impiego, gli ostacoli alla sua realizzazione sono pregiudizi profondamene radicati e forti, fortissimi attriti amministrativi. In primo luogo, invece di potenziare , aumentando gli importi e la platea dei beneficiari l’agile e ben congegnato, ma sotto-dotato REI (“reddito di inclusione”) del governo Renzi, i 5* vollero ignorarlo e ripartire ex-novo con il RdC, non un reddito di cittadinanza ma un sussidio condizionato alle famiglie. Il loro progetto di accompagnare le famiglie nell’avviamento al lavoro fallì per una causa incredibile ma vera: le regioni, a cui sono demandate le politiche sociali, si rifiutarono di collaborare con il Ministero del lavoro. Ma il lo schema di sussidi in cui in sostanza consisteva il RdC aveva un’aporia che gli economisti subito individuarono : la tassa implicita sui guadagni fino alla soglia garantita è pari al 100%. Il RdC tende a scoraggiare il lavoro e a lasciare i suoi protetti nella povertà. I correttivi introdotti dai governi Draghi e Meloni (nonostante il cambio di nome: da RdC a “assegno di inclusione”) sono deludenti: non intaccano l’impianto di fondo ma tendono a ridurre la platea degli assistiti e gli importi delle diverse prestazioni. Ad esempio, d’ora in avanti potranno ricevere l’assegno solo le famiglie con minori, anziani oltre i sessant’anni e disabili. La mancanza di incentivi al lavoro è affrontata con misure e regole amministrative piuttosto che con motivazioni economiche.

Esistono schemi fiscali, come ad esempio il poco noto “Reddito di base universale e incondizionato”, “universal basic income” in inglese, messo a punto per l’Italia dall’economista Ugo Colombino, che erogano di più e in modo assolutamente non discriminatorio con un gigantesco risparmio di costi amministrativi. Potrebbe essere un buon punto programmatico per un eventuale partito di centro-sinistra.

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