Il governo Draghi non ha più senso dopo il voto di domenica

Con Meloni che dà le carte addio autonomia per Veneto e Lombardia

di Paolo Becchi e Giuseppe Palma
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Politica
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Amministrative e Referendum sulla giustizia: analisi del voto

Analizzare percentuali nel voto amministrativo, comparandole a livello nazionale, è sempre stata un’impresa mal riuscita. Ci limitiamo dunque a quelle analisi che offrono un senso politico concreto al voto di domenica, tanto a livello referendario quanto su scala di elezioni amministrative.

Referendum

Il voto referendario sulla giustizia segna la morte della democrazia diretta, per lo meno nella forma concessa dalla Costituzione. Uno strumento, quello del referendum abrogativo, che non funziona più. I segnali erano già evidenti da inizio secolo, ma ora c’è la certificazione col minimo storico di partecipazione popolare (20,8%). Le responsabilità sono anche dei promotori, che si sono svegliati  una quindicina di giorni prima del voto, troppo poco per raggiungere il quorum. Media e Istituzioni hanno fatto il resto: la Tv pubblica, pagata coi soldi degli italiani, è stata la grande assente, mentre lo stesso Presidente della Repubblica – smentendo ciò che diceva fino a qualche anno fa – ha sottolineato che il voto è un diritto e non un dovere. Insomma, un cappio al collo dei referendum sulla giustizia.

Di fatto ha retto l’accordo di sistema tra una parte della magistratura e una parte della politica che di quella magistratura ne è la protettrice, avvantaggiandosene dell’operato politico. Parafrasando Vercingetorige, casta forte ha battuto casta debole. Per rilanciare i referendum occorrerebbe una revisione costituzionale che abolisca il quorum. Campa cavallo. Il dato di fatto però è che degli oltre dieci milioni di voti espressi nella consultazione referendaria, il Sì all’abrogazione ha prevalso per tutti e cinque i quesiti. Troppo poco per il quorum, ma un segnale politico al Parlamento, che ora dovrà portare a termine la riforma Cartabia approvata alla Camera e ferma in Senato. Pannicelli caldi, nulla di che, ma quantomeno un primo passo per tenere a freno le correnti e dunque la magistratura politicizzata. Cambierà ben poco, ma visto che il referendum non è passato è inutile pensare – in questa fase storica - di poter fare di più.

Amministrative

Anche qui l’affluenza è stata bassa, col 46% degli elettori rimasti a casa o al mare. Un altro record negativo alla voce partecipazione al voto. Sta di fatto che, in controtendenza rispetto alle ultime amministrative dell’ottobre 2021, il centrodestra questa volta è in vantaggio sul centrosinistra, come dimostra ad esempio l’elezione dei sindaci già al primo turno in comuni capoluogo di Regione come Genova, L’Aquila e Palermo, oltre che il ballottaggio al fotofinish in comuni come Monza e Sesto San Giovanni, coi candidati di centrodestra in netto vantaggio. Non paga l’alleanza Pd-M5S, risultata decisiva solo a Padova, Taranto e Lodi, del tutto dannosa invece in altri comuni, anche del Centro-Sud.

Il Pd ha inghiottito il M5S, ridotto ormai ai minimi storici. Lì dove Dem e pentastellati sono andati a braccetto, Italia Viva e Azione hanno corso fuori dalla coalizione, determinando la sconfitta dell’accordo tra Letta e Conte. Il secondo turno rappresenta una partita nuova dove si parte da zero a zero, ma tutto lascia pensare che Partito democratico e Movimento non faranno scintille. Emblematica la vittoria del centrodestra in comuni del Sud Italia dove il reddito di cittadinanza la fa da padrona, si pensi a Palermo in Sicilia e Catanzaro in Calabria, dove l’alleanza Pd-M5S è stata sonoramente bocciata. Ai punti, queste amministrative – che hanno interessato 978 comuni e 9 milioni di elettori (votanti effettivi quasi 5 milioni) - si chiudono col centrodestra al 46,2% e il centrosinistra (compreso il M5S) al 44,3%.

I partiti

Rispetto a cinque anni fa la Lega ha subito un duro colpo. Prendiamo ad esempio quattro comuni significativi: Genova, Sesto San Giovanni, Monza e Lodi. Nel capoluogo ligure il Carroccio scende dal 12,95% al 6,8%, a Sesto dall’8,11% al 6,2%, a Monza dal 14,21% all’8% e a Lodi dal 14,22% al 9,4%. Cresce a L’Aquila dal 6,76% al 12,5%, ma in generale perde un po’ dappertutto, attestandosi al 6,3% su base nazionale, anche se le liste civiche di centrodestra hanno drenato ai partiti ben il 25% dei voti; dunque, è ragionevole pensare che il Carroccio sia di poco sotto al risultato delle politiche 2018. Scompare il M5S, che, come massimo consenso, non va oltre il 7,2% a Palermo (cinque anni fa era al 13,1%), crolla a Genova (dal 18,4% del 2017 al 4,5% di domenica) e scompare a L’Aquila (dal 3,9% al 0,7%). Primo partito nazionale il Pd, col 19,3% dei voti, secondo Fratelli d’Italia col 10,4%, anche se – a onor del vero – le liste civiche di centrosinistra hanno drenato appena il 16,8%, quindi è ragionevole pensare che i partiti di Letta e Meloni se la giochino alla pari. Forza Italia in lieve calo ma non cede, mentre Italia Viva e Azione hanno ottenuto un buon risultato solo in alcuni comuni.

Il significato politico

Referendum e amministrative ci dicono in sostanza che i partiti di governo, a parte il Pd, sono tutti in grande affanno, in primis Lega e M5S, coi pentastellati ridotti al lumicino. Se i Dem resistono ma non sfondano, Salvini paga ciò che il governo Draghi ha fatto tra super green pass e obbligo vaccinale da novembre a marzo, mentre il MoVimento sconta la totale insipienza dei suoi ministri e del suo leader, completamente ininfluenti nelle scelte di Draghi e compagni. L’economia è a pezzi, i prezzi aumentano, il lavoro scarseggia, la guerra incombe, le bollette alle stelle e ad ottobre lo spettro di un’altra ondata pandemica e vaccinale, con ennesima repressione governativa. È la crisi dei partiti, che se nel 1993 trovò foce nella stagione gloriosa dei referendum di Mariotto Segni oggi si rifugia nell’astensionismo. Se nel 93 i partiti scomparvero, sostituiti da altri, oggi sono fantasmi che camminano: a sparire questa volta è l’elettorato. Il fronte del dissenso ottiene qualche modesto risultato come a Genova con Crucioli. Ma la frammentazione di questo fronte diviso in tanti partitini non servirà a creare una consistente opposizione e catturare l’interesse degli elettori che si sono astenuti dal voto. Ci vorrebbe una nuova “intelligenza collettiva” e non un pulviscolo di partitini che mira solo ad occupare un posto in parlamento.

Conclusioni

La pandemia è alle spalle (almeno per ora) e dunque il governo istituzionale – nato sedici mesi fa per far fronte all’emergenza pandemica e alla campagna vaccinale - non ha più ragione di esistere. Certo, incombe la guerra, così come lo spauracchio dello spread, ma Salvini può continuare a stare al governo col Pd se poi alla fine Draghi fa sempre ciò che gli pare accontentando Letta e scontentando il leader del Carroccio? Siamo in emergenza, si dirà, quindi Salvini sia responsabile e non metta in pericolo il governo. D’accordo, ma il rischio è che Salvini perda ulteriori consensi. Nella migliore delle ipotesi vincerà alle politiche il centro destra, ma sarà Meloni a dare le carte. E a quel punto addio autonomia per Veneto e Lombardia…   

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