Manovra, Giorgetti e la strategia 'wait and see'. Così il Mef ha ridotto le modifiche e allungato i tempi

Tutto con l'ok di Meloni. Solo tre le modifiche rilevanti

Di Alberto Maggi
Politica

Manovra, ecco come Giorgetti ha evitato il classico "assalto alla diligenza"


Il copione alla fine tutti gli anni è sempre lo stesso. A novembre il governo promette una rapida approvazione della Legge di Bilancio per l'anno successivo, con l'intenzione di arrivare al via libera finale da parte di entrambi i rami del Parlamento prima di Natale, e invece finisce che si arriva in seconda lettura in piena zona Cesarini tra Natale e Capodanno (quest'anno al Senato) per evitare lo spettro dell'esercizio provvisorio. Ovviamente con la fiducia.

Ma che cosa è successo esattamente visto che due settimane circa il vertice di maggioranza a Palazzo Chigi aveva chiuso la manovra e trovato l'accordo? Semplice, in Parlamento, più precisamente a Montecitorio, sono comunque nati come funghi dopo un'acquazzone numerosi emendamenti, non solo delle opposizioni ma anche della maggioranza, alcuni di scarsa rilevanza ma altri che avrebbe minato l'impianto stesso della Finanziaria.

Come spiegano fonti di governo ad Affaritaliani.it, il ministro dell'Economia, noto per volere meno "rotture di scatole possibili" (dice chi lo conosce bene), ha adottato con l'avallo di Palazzo Chigi (ovvero Giorgia Meloni e Giovanbattista Fazzolari) la strategia che in Transatlantico hanno ribattezzato 'wait and see', mutuando il famose modo di dire anglosassone che vuol dire aspetta e vedi che cosa accade.

In sostanza il titolare del Mef ha ritardato il più possibile il parere sugli emendamenti, sia di Centrodestra che delle opposizioni, e alla fine molti di questi sono decaduti anche per oggettiva mancanza di tempo. Una strategia e un modus operandi che serve al numero uno di Via XX Settembre per evitare il classico "assalto alla diligenza", classico delle manovre nella Prima Repubblica dove ogni parlamentare cercava di infilare qualcosa di suo e per il suo territorio (quindi per i suoi elettori).

Alla fine della giostra, ormai ci siamo quasi, sono tre le grandi novità rispetto al testo varato dal Consiglio dei ministri. La prima è certamente l'intervento sull'Ires incrementale per le aziende che la maggioranza aveva dimenticato e che, grazie anche al presidente della Camera Lorenzo Fontana, ha recuperato accettando un emendamento di Azione prima firmataria Elena Bonetti. Poi ovviamente tutti i partiti di Centrodestra si sono intestati la misura, ma chi vive Montecitorio ogni giorno sa che le cose sono andate così.

Le altre due modifiche importanti sono in qualche modo vittorie della Lega e soprattutto di Matteo Salvini ovvero i finanziamenti per il Ponte sullo Stretto, complessivamente sei miliardi di euro per la realizzazione dell'opera, e l'emendamento del sottosegretario al Lavoro Claudio Durigon sul secondo pilastro del sistema previdenziale (i fondi) per poter andare in pensione dal 2025 a 64 anni senza aspettare necessariamente i 67.

I grandi punti deboli sono le risorse per la sanità, che coprono solo gli straordinari di medici e infermieri ma non bastano certo per ridurre le lunghissime liste di attesa, il mancato taglio dell'aliquota Irpef dal 35 al 33% sopra i 40mila euro (ancora una volta il ceto medio mastica amaro) e i miseri tre euro di aumento delle pensioni minime. D'altronde la manovra è fatta di scelte e l'input di Palazzo Chigi e del Mef era quello della credibilità internazionale, cioè della tenuta dei conti pubblici e quindi del contenimento dello spread (ai minimi).

Ecco perché Giorgetti, serafico e pacifico, ha adottato la strategia del 'wait and see'. Molti deputati di Centrodestra sono rimasti con l'amaro in bocca? Pazienza. Così funziona la Legge di Bilancio. Punto, capitolo chiuso. Ciliegina finale, briciole, il fondo da 50 milioni di euro per gli ordini del giorno di deputati del Centrodestra. Giusto un contentino, mezza pastiglia di Malox per digerire la pesantissima manovra delle feste natalizie del 2025. 

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