Speranza, Bersani, D'Alema: il Pd attende il ritorno della "trimurti"

Arturo Scotto dice: “Eravamo usciti dal Pd perché non era il partito che volevamo"

Di Giuseppe Vatinno
Politica

Speranza, D'Alema, Bersani: il ritorno nel Pd del "trio"

Ma verranno? Quando Verranno? E se verranno, come faremo? Queste le domande che vorticano come spifferi indisponenti in un vecchio Palazzo del centro storico di Roma, conosciuto come “Nazareno”, dove ha sede un Istituto –guarda caso- cattolico ma ha sede soprattutto il Partito democratico, erede del PCI e di una parte della Democrazia Cristiana. Ora è la sede della nuova segretaria Elly Schlein che di carriera ne ha fatta molta essendosi iscritta solo qualche mese fa. Ma chi è la triplice che dovrebbe ritraslocare?

Si tratta nientemeno della “ditta” originale, cioè di Massimo D’Alema e Pierluigi Bersani con l’aggiunta di un “ragazzo”, invero prima non molto noto e che ora lo è grazie alla popolarità ottenuta durante Il Covid e cioè l’ex ministro della Sanità Roberto Speranza che ha messo agli arresti domiciliari milioni di italiani condendo il tutto con un green pass che non serviva a nulla dal punto di vista sanitario ma che ha impedito di lavorare ad altri milioni di persone. Naturalmente i tre, nella migliore tradizione comunista negano, si parano, nicchiano, accennano vagamente ma non dicono esplicitamente, anzi corrugano il sopracciglio e guardano male.

D’Alema continua a perculare in privato i cronisti dicendo: “Seguirò la linea che ci darà il compagno Speranza”. Grande l’ex baffino nazionale che come un leone in gabbia ora deve obbedire, almeno formalmente, allo sconosciuto “compagno”. Infatti il verbo finale sarà rivelato dal meno importante dei tre –per questo l’hanno messo a fare il segretario- e cioè Speranza che qualche giorno fa ha” zoomato” facendo comparire i bei faccioni sovietici del Politburo della direzione nazionale di Articolo 1 sul computer. 

La novena è scontata e fa parte della retorica da mercato rionale: “C’è qualcuno che può sostenere che questo Pd è lo stesso di quello di Renzi?”. “Noooooo!”. “Ora abbiamo la nostra nuova Marianna fluida che con il dito ingioiellato ci indica il dolce Sol dell’Avenire. Ne sarete voi degni?”. “Sììììììì!”.

E già immaginiamo l’applauso brezneviano di D’Alema e company con le loro divise falciomartellate e le decorazioni all’ordine di Lenin, pardon di Togliatti, in verità un poco sbiadite dagli anni e soprattutto dalle “lenzuolate” di liberalizzazioni e dalla distruzione della sanità pubblica e del lavoro perpetrata proprio da Bersani e D’Alema (con la ciliegina Renzi sul Job Act)

Poi c’è il momento dell’autoinganno collettivo per dimostrare che la “linea era giusta” con lo sconosciuto coordinatore di Articolo 1 Arturo Scotto che dice: “Eravamo usciti dal Pd perché non era il partito che volevamo. Siamo in questo Pd perché è quel partito che volevamo già allora, un Pd del lavoro, dalla parte degli ultimi".

Notare l’epifania della parolina magica, i mitici “ultimi” che ormai compaiono in ogni sbragata retorica per acchiappare voti ai gonzi. Dunque il ricorso freudiano alla volpe e l’uva si dispiega in tutta la sua metallica e risplendente magnificenza: se ne erano andati perché quel Pd nato nell’Arno non era il “loro” Pd, non era quello degli “ultimi”. Nessun accenno al fatto che Renzi li aveva ampiamente e sapientemente brutalizzati, di fatto cacciandoli dal partito. E già immaginiamo che il responsabile dell’organizzazione del partito si avvicina a Massimo D’Alema brandendo la tesserina di plastica a mo’ di crocefisso mentre l’ex premier si ripara con la mano vampirata, smania, smuguglia ed infine firma e ritorna dove “tutto ebbe inizio”.

E c’è da giurare che sul far della sera, tra le tenebre incombenti di questa precoce primavera romana, faranno capolino altre conoscenze, altri difensori degli ultimi che magari negli ultimi anni si erano distratti troppo ed erano finiti quasi a destra, come Gennaro Migliore che ora tornerà dicendo: “Contrordine, compagni. Sono di sinistra anche io”.
 

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