Cronache

Anarchici occupano casa ma vengono assolti ed è giusto. La surreale vicenda

di Antonio Amorosi

Surreale vicenda/ Anarchici occupano casolare, la casa non si sa di chi sia e vengono arrestati ma al processo il giudice...

Sul tetto dell'edificio mentre i carabinieri cercano di farli scendere. La strana vicenda che finita in tribunale forse poteva trovare strade alternative 

Anarchici. In questi ore nelle prime pagine dei giornali locali di Modena c’è il clamore per la manifestazione "Smash Repression" che si terrà il 28 ottobre prossimo, figlia degli sgomberi di un anno fa dopo tre giorni in cui migliaia di ragazzi occuparono un capannone per un rave party in zona. La città è preoccupata per l’arrivo di orde di estranei che potrebbero mettere in discussione la pace. Ma più clamorosa ancora è la notizia dell’esito giudiziario di un caso che coinvolge un gruppo di anarchici, sempre loro, che nel 2020 occuparono un casolare nel modenese. 

Siamo a fine febbraio e una quindicina di ragazzi occupano quella che nel modenese viene chiamata "Casa Bassa", un casolare nella campagna di Guiglia, frazione di Samone, in fondo a via Busano, lontano dal centro abitato. Ma c’è una persona che usa in modo discontinuo la struttura che prima chiede ai giovani di andarsene e poi chiama i carabinieri.

La scena si fa in fretta incandescente: gli anarchici salgono sul tetto a inscenare una protesta e una quarantina di carabinieri sotto, accorsi da tutta la provincia, che cercano di chiudere l’occupazione abusiva. Passa un’intera notte e una giornata, tra trattative e il pericolo che qualcuno possa farsi male anche cadendo dal tetto, prima che i giovani scendano. Ma la tensione e la conflittualità sono tali che in undici vengono arrestati per resistenza a pubblico ufficiale e occupazione dello stabile, mentre altri quattro vengono denunciati solo per occupazione.

Il caso ribalza sui giornali locali con grande clamore nella provincia modenese. Subito rilasciati si va a processo che dopo diverse udienze si è risolto in questo ore. “E’ andata bene”, spiega ad Affaritaliani l’avvocato Daniela Goldoni che difendeva dieci dei quindici imputati, “il giudice ha compreso quanto accaduto e la tenuità della vicenda. In più non era chiaro se i denunciati fossero i reali occupanti. Poi non si è neanche capito di chi fosse la proprietà dello stabile”. 

Ma come? E’ tutta una questione di occupazione di proprietà privata altrui e non si sa chi sia il proprietario? L’aspetto più singolare della vicenda appunto è di chi sia la proprietà della "Casa Bassa", che risulterebbe parte di un lascito testamentario, né è chiaro il titolo dell’utilizzatore, probabilmente usufruente dell’alloggio per un rapporto pregresso, con la precedente proprietà. Ma quest’ultima resta solo un’ipotesi. L'occupazione dei quindici anarchici, provenienti da ogni parte d’Italia e che oggi hanno un’età compresa tra i 24 e i 37 anni, era durata il nulla.

Il collegio dei giudici di Modena ha deciso di assolverli dalla resistenza a pubblico ufficiale, mentre per il reato di occupazione abusiva è scattato l'articolo 131 bis del Codice penale che identifica la vicenda come fatto tenue e ne fa decedere la punibilità. Sul caso ha sicuramente inciso in modo decisivo il dato che la proprietà non era identificata, che nessuno si sia costituito parte civile contro i ragazzi e che l’occupazione sia durata davvero poco.

Al processo sono stati sentiti molti carabinieri coinvolti nello sgombero. Ma la domanda è, vista anche la decisione finale e i motivi che sottostanno alla valutazione dei giudici: aveva senso un processo del genere con altro dispiego di forze oltre a quelle messe in campo, attenzione, risorse economiche e impegno?

Nella nostra società ogni conflitto tra parti finisce ormai in tribunale. Ma non avrebbe senso trovare degli strumenti intermedi per mettere fine a conflitti e contenziosi, tra posizioni più o meno legittime, senza l’intervento della giustizia o di una terza parte, trovando delle vie di mediazioni tra i contendenti e senza spese inutili per i contribuenti? 

La strada dei tribunali nasce dalla prassi e dalla tradizione di risolvere i conflitti tramite lo scontro, la contesa, il duello, la guerra, lascito delle culture autoritarie e feudali. La giustizia emerge come opzione terza della legge che sta sopra le parti ed innova il campo in modo rivoluzionario ma che però si basa su un assioma: che una parte in causa abbia ragione e l’altra torto.

Tutto il procedimento consiste nel capire chi è in torto e quanto lo è. Sono casi che si contano sulle dita di una mano o sono quasi inesistenti quelli che decidono che entrambe le parti non siano in torto. E come scrive il Centro Studi Sereno Regis, che elabora le attività di educazione alla mediazione, le lotte nonviolente e l’educazione alla pace, “nel diritto penale, il tribunale, che è esso stesso parte dello Stato, non arriva mai alla conclusione che è lo Stato ad avere torto. Di nuovo: abbiamo qui la trasposizione della tradizione teologica che classifica le persone in ‘i salvati’ e ‘i dannati’ (molto simile ai ‘con-dannati’). L’approccio alternativo consiste nel mettere a fuoco non le singole parti, ma la relazione fra le parti, l’interazione”. Nel cercare quindi una soluzione diversa, soprattutto quando il fatto non è così grave o è risolvibile per altre strade che richiedono un minor dispendio di forze. Un’esigenza che senza impegni ulteriori faccia slittare il potere di decisione e la soluzione dei contenziosi tra le persone, verso il basso, e non demandandolo allo Stato se non a fatti più gravi e di difficile soluzione.