Cronache
Ottant'anni dopo arriva a destinazione. La cartolina dall'Inferno di Cefalonia
Lo scritto è datato 8 gennaio 1944. Foto
Sono otto righe, scritte da Battista Alborghetti, originario di Ambivere (Bergamo), partito diciannovenne per la guerra nel settembre 1942, approdato il giorno di Capodanno del 1943 a Cefalonia
Questa è una storia che ha dell’incredibile. Inizia da una cartolina che arriva dall’inferno di Cefalonia e, ottant’anni dopo, giunge a squarciare il velo su drammi, orrori e residue speranze di un giovane soldato italiano, mio padre, che - come artigliere della Divisione “Acqui” - stava vivendo nel terrore scatenato dall’eccidio nazista sulle isole greche di Cefalonia e Corfù, dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943.
Sono otto righe, scritte da Battista Alborghetti, originario di Ambivere (Bergamo), partito diciannovenne per la guerra nel settembre 1942, approdato il giorno di Capodanno del 1943 a Cefalonia, dove nel settembre successivo, i tedeschi scateneranno il finimondo. Per un incredibile gioco di rimbalzo tra passato e futuro - dopo essere stata sepolta nel silenzio degli archivi dei fascicoli militari - la cartolina ritrova oggi la luce, come una sorta di “messaggio in bottiglia” che le onde del tempo hanno trasportato per decenni, fino ad approdare ai giorni nostri.
Lo scritto è datato 8 gennaio 1944. Ossia nei mesi più drammatici seguiti alla violenta e sanguinosa repressione eseguita dalla Wermacht che, su ordine di Hitler dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, passa per le armi oltre 3.000 militari italiani, come documentano le ricerche più attendibili. Anche mio padre vede la morte passargli accanto più volte. Arrestato e obbligato ai lavori forzati, subirà anche un periodo di isolamento nel lager di Argostoli, come ho raccontato nel testo “Mio padre nell’inferno di Cefalonia”, pubblicato nel 2006.
Dei 130 componenti della sua Batteria - la Seconda del Primo Gruppo del 33° Reparto Artiglieria della Divisione “Acqui” - ne sopravviveranno con lui soltanto cinque, tutti bergamaschi: Manenti, Gibellini, Bertocchi, Cavenati. Ed è alla sorella di quest’ultimo, residente a Carvico, che mio padre Battista scrive la cartolina postale. È un saluto, un messaggio di amicizia per la “signorina Ottavia”, forse conosciuta prima di partire per il fronte. Quelle parole, lette ora, dopo ottant’anni, appaiono come un disperato segnale di speranza, un insopprimibile segno di vita, una reazione agli indicibili orrori che mio padre e i suoi compagni di reggimento stavano vivendo quotidianamente.
Colpisce nello scritto il tono di grande rispetto e delicatezza - mio padre si rivolge ad Ottavia con il “voi”- come per voler contrastare il regime di crudeltà e ferocia con cui i nazisti della Wehrmacht tenevano in scacco i soldati italiani, per i quali ogni giorno, ogni ora, presentava un’incognita, era un salto nel buio. Il testo è segnato qui e là da piccole sgrammaticature (come quelle doppie “t” tipiche di chi parla il dialetto orobico) comprensibili se consideriamo la precarietà, l’angoscia e la tensione di quei mesi. Scrive Battista: “8-1-44 - Un amorevole e originale saluto da chi sempre ricordo, l’amico Alborghetti. Io mi trovo ancora assieme al vostro fratello Giacomo che è molto pensieroso pure lui come me, che è cinque mesi che siamo privi di notizie. Saluto a voi e tutta la famiglia”. Parole disarmanti. Semplici e dirette. Strutturate e pensate con la consapevolezza che sarebbero state lette dalla “Feldpost” della Wehrmacht che, come avverrà, non farà mai partire quella missiva, benché l’avessero timbrata con la data del 13 gennaio 1944.
Quelle frasi, appena lette, hanno fatto sobbalzare sulla sedia colei che ha “scoperto” la cartolina ottant’anni dopo. È stata Daniella Ghilardini - presidente della sezione bergamasca dell’Anda l’Associazione nazionale che riunisce le famiglie dei caduti e dei superstiti della Divisione “Acqui” - a ritrovare il messaggio postale durante un lavoro di ricerca presso l’Archivio di Stato di Bergamo.
Daniella è nipote di padre Luigi Ghilardini, indimenticato cappellano militare della Divisione “Acqui”, anch’egli a Cefalonia insieme a mio padre e alle altre migliaia di soldati italiani. Dice Daniella: “Non credevo ai miei occhi quando tra le carte ingiallite di un faldone è scivolata fuori questa cartolina postale scritta ottant’anni fa da Battista, sopravvissuto all’eccidio ed internato nel campo di concentramento di Argostoli. Stavo infatti svolgendo una ricerca di documenti militari riferiti al soldato Giacomo Cavenati, originario di Carvico, anch’egli a Cefalonia dal 1943 al 1944, commilitone di Battista. La nipote di Giacomo, Raissa, mi aveva chiesto di aiutarla nel risalire a qualche brandello di storia riguardo a suo nonno. La cartolina di Battista era finita nel “fascicolo Cavenati” appunto perché era indirizzata ad Ottavia, sorella di Giacomo! In quelle righe c’è il segno di un’amicizia che aiutava a sopravvivere in quei momenti tristi, pericolosi e incerti!”.
La cartolina, come altra corrispondenza, venne probabilmente sequestrata e dirottata dai militari della Wehrmacht in qualche archivio, ritrovato e acquisito dalle forze di liberazione quando sbarcarono sull’isola nel novembre del 1944. I tedeschi, il mese prima, avevano precipitosamente abbandonato Cefalonia, perché richiamati su altri fronti e nella fuga avevano forse dimenticato di eliminare la documentazione più “leggera”, quella meno compromettente rispetto alle azioni brutali e arbitrarie compiute sui soldati della “Acqui”. La cartolina di Battista è un elemento prezioso che fa memoria di una drammatica pagina di storia. Ci collega concretamente a persone che, come Battista e Giacomo, sono state segnate nel profondo da orrendi crimini contro l’umanità. Giacomo (morto nel 2003) e Battista (deceduto nel 2014) erano stati ritratti insieme ad altri quattro commilitoni in una foto storica scattata a Cefalonia nel novembre 1944. L’immagine li vede sorridenti. I nazisti se ne erano già andati dall’isola. E loro, i sopravvissuti, ogni giorno, ogni ora, scrutavano l’orizzonte del mare, in attesa di una nave che li avrebbe riportati in Italia, lontano da un luogo che mai verrà dimenticato.