Cronache
Discoteche, "Io, buttafuori, vi spiego perché chiuderle non ha senso"
Lavoro in discoteca, sono un buttafuori, o più elegantemente un addetto alla sicurezza. Ho studiato giornalismo a Urbino, ho un master in giornalismo investigativo, ma da circa 8 anni questo è l'unico lavoro che mi dia un minimo di stabilità. Ho 34 anni, vivo e lavoro nei locali della bassa Romagna, il cosiddetto "divertimentificio" d'Italia: per qualche anno, ho lavorato anche al Cocoricò, ormai tristemente famoso.
E' nella mia zona che sono nati i buttafuori: a Rimini, per la precisione, nel 1981. Io lavoro dalle 11 di sera alle 6-6.30 di mattina: poi torno a casa e dormo, almeno fino alle 14. Ogni sera mi frutta dai 60 agli 80 euro. Quando va bene, in estate per esempio, riesco a lavorare cinque giorni alla settimana. Certo, non è quello che ho sognato: ho studiato e mi trovo a fare il buttafuori, ma quello che ho imparato all'università mi torna molto utile: la comunicazione è, nella maggior parte dei casi, molto più efficace della repressione nell'affrontare i problemi che si presentano in discoteca: problemi di droga, o di violenza. Che però non sono l'unico volto della discoteca, ma un aspetto minoritario, che semplicemente fa più notizia. La discoteca non uccide, non è assassina: così come non è assassina la montagna, quando muore uno scialpinista che si era avventurato in un fuoripista. Chiedere di chiudere le discoteche per proteggere i giovani è come chiedere di chiudere l'autostrada perché ci sono troppi incidenti. Le notizie e i commenti di queste ultime settimane, dal Cocoricò al Salento, dovrebbero chiamare tutti a una presa di responsabilità e non a una ricerca ossessiva del capro espiatorio. Vedo ragazzi, quasi bambini, arrivare in discoteca con le tasche piene di soldi e rincasare ad orari improponibili: da “addetto alla sicurezza”, chiedo alle famiglie di vigilare di più.
In queste ore si sente parlare tanto di droga in discoteca: ma non è la quotidianità con cui mi confronto. Certo, le sostanze entrano, così come entrano le armi, anche se se ne parla di meno: noi non possiamo perquisire chi entra, al limite possiamo chiedere di vedere il contenuto della borsa o dello zaino. E diverse volte mi è capitato di scovare armi da taglio o tirapugni, tante altre mi saranno sfuggite. Di canne e spinelli ne strappo via dalle mani ogni sera, molto più raramente mi capita di intercettare pasticche: certo è più difficile, devi essere bravo a notare il passamano, con la luce bassissima, il rumore e gli strobo che accecano e confondono. Non è però un fenomeno massiccio come si vuole far credere in questi giorni: la maggior parte dei giovani va in discoteca per divertirsi, entra ed esce sorridente e soddisfatta, ringraziando per la serata e la buona musica. Poi, certo, c'è quello che, per fare una bravata o perché non sa quello che fa, infila una pasticca nel bicchiere dell'amico, o della ragazza che vuole rimorchiare: se stai attento e sei bravo, te ne accorgi e fai in tempo a fermarlo. Ma sono casi rari: per lo più, la droga si compra, si paga. E costa tanto. Uno scenario in cui lo spacciatore si metta a regalare pasticche è del tutto fantasioso: chi vende esiste perché esiste chi compra.
Poi c'è il problema dell'alcol: un problema grosso, perché la tentazione della cassa è forte. Un cocktail costa al locale un euro e mezzo, massimo due. E viene venduto in media a 10 euro. Il limite della vendita non oltre le 3 di notte è quindi molto teorico, come tanti limiti che vengono posti in Italia. E così si sballa tanto anche con l'alcol, si esagera: anche questo, però, non solo in discoteca. Droga e alcol girano anche ai giardinetti, o in stazione. Per questo chiudere le discoteche non servirebbe proprio a niente.
Piuttosto, rinforzare il ruolo sociale di chi, come me, è chiamato a tutelare l'ordine e la sicurezza: essere riconosciuti dalla legge come pubblici ufficiali già sarebbe di grande aiuto. Ma anche valorizzare il nostro compito, che può essere non solo repressivo ma anche pedagogico: ricordo scambi significativi con alcuni ragazzi. Una sera ne fermai uno, che stava assalendo con violenza un altro: gli feci notare come non fosse normale comportarsi in quel modo. E lui, sconcertato e onesto, mi ha semplicemente chiesto “Perché?”. Questo mi ha fatto capire come questi ragazzi abbiano bisogno di dialogo, più che di repressione. E quanto sia possibile o addirittura facile persuaderli, piuttosto che allontanarli o sanzionarli. Ecco perché chiudere le discoteche, o demonizzarle, non ha alcun senso: trasformarle in luoghi sicuri, questo sì. Con l'aiuto di tutti.
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