Cronache
Giulia Cecchettin, non c’è solo il patriarcato
Nell’uccisione di Giulia Cecchettin il richiamo al patriarcato non basta a descrivere quanto accaduto e, anzi, rischia di far perdere di vista altri fattori
Giulia Cecchettin: non c’è solo il patriarcato
In collaborazione con FuoriTestata
Serve distanza, a volte, per avere a che fare con la complessità. Il drammatico femminicidio di Giulia Cecchettin ha provocato nell’immediato un’ampia ondata emotiva di reazioni e prese di posizione e ha portato l’attenzione sul ruolo delle dinamiche di supremazia e di controllo dell’uomo sulla donna, tipiche del patriarcato, nei casi di femminicidio. Quando parliamo di femminicidi parliamo di quei delitti in cui le donne vengono uccise per il loro ruolo di donne, in quanto donne, all’interno di rapporti affettivi e spesso familiari in cui proprio queste dinamiche di potere esplodono. Tuttavia, va ricordato come ogni femminicidio, insieme ad alcune caratteristiche ricorrenti, presenti degli ingredienti specifici che non possono essere ignorati.
In questo senso, nell’uccisione di Giulia Cecchettin a mio parere il richiamo al patriarcato non basta a descrivere quanto accaduto e, anzi, se ritenuto sufficiente rischia di far perdere di vista altri importanti fattori che devono invece essere osservati, guardati e riconosciuti. Cosa che la distanza, temporale ed emotiva, consente di far meglio. Per esempio, un elemento che vedo ricorrere spesso – e che ho ritrovato in questo femminicidio - ma che viene poco sottolineato ha a che fare con la rabbia e il dolore legati al senso di esclusione, dell’essere tagliati fuori, del non poter più essere parte della vita dell’altra persona. Pensiamo ai casi che vediamo raccontati con “non accettava la separazione” o “non si rassegnava alla fine della storia”. Come ho letto anche nel caso di Filippo Turetta, quell’esclusione pare rendere intollerabile l’essere allontanato, buttato fuori dalla vita dell’altro che invece va avanti, in una situazione di normalità, con un suo progetto, come quella di Giulia che continuava la carriera accademica.
Nel caso di Turetta, poi, c’è un passo ulteriore al senso di esclusione: ravvedo infatti quello che accade in molte relazioni tra giovani, in cui uno rischia di diventare il “parassita” della vita dell’altro. “Io sono perché sto con lei”, lei così fa parte integrante della mia percezione di me, di come io considero me stesso, non esiste in quanto “altro da me”. Se lei se ne va, porta via un pezzo di me, un elemento portante della mia identità: è come costruire una casa addossata alla casa dell’altro, con un muro in comune, per cui se lei se ne va è come se si portasse via un muro, facendo crollare la mia costruzione. E questo viene vissuto come inaccettabile. Turetta si fregiava del successo di Giulia, come arricchimento della propria identità, del proprio valore. Una simile ideazione è il frutto di una profonda e drammatica immaturità della persona, dell’intera costituzione del senso di sé.
Un terzo elemento che merita attenzione è la totale incapacità di mentalizzare il dolore che emerge in questo caso – come in molti altri - e ci deve portare a una riflessione: viviamo e continuiamo a costruire ogni giorno una società che non ci allena a far nostro il dolore. Ci allena al contrario a negarlo o a rimandarlo ad altri, in una modalità che potrei definire paranoica. Proteggiamo all’inverosimile i nostri figli da qualsiasi frustrazione e sofferenza, ci mettiamo al loro posto, risolviamo i problemi prima allora che si presentino, come se non li ritenessimo capaci né di autoconsolarsi né di gestire la benché minima frustrazione e loro, figli amorevoli, diventano proprio questo, come nella migliore profezia che si autoavvera.
La tolleranza del dolore, della frustrazione, pare non appartenere più alla nostra cultura. Per essa non c’è spazio. Non accettiamo che il dolore riguardi noi stessi, non lo consideriamo un ingrediente dell’esistenza: diventa più facile, allora, prendermela con chi ritengo sia la fonte di quel dolore. Se elimino chi lo provoca, elimino il dolore. Ovviamente l’aver evidenziato questi aspetti, peraltro ricorrenti anche in altri episodi simili, non esaurisce l’analisi delle emozioni che possono intervenire nei rapporti tra persone e che possono diventare violente e intollerabili al punto che poi si sostituiscono alla capacità della mente di produrre soluzioni razionali.
Infine, un’ultima considerazione: mi sono chiesta come mai questo caso abbia colpito l’immaginario più di altri, tra i troppi femminicidi che ci troviamo a contare. Oltre agli elementi che sono già emersi nel dibattito (il ruolo della sorella di Giulia, Elena, nel far diventare pubblico il dolore della famiglia; il fatto che Giulia si stesse per laureare e si stesse affacciando alla sua vita adulta; il contesto socio-culturale della famiglia; la vicinanza della data del 25 novembre) c’è da dire che abbiamo seguito questa storia come fossimo al cinema. Abbiamo seguito la coppia come in un film, sin dal momento della sparizione; la loro storia ha smosso fantasie e illusioni, ipotesi e illazioni.
Con una copertura mediatica da diretta tv, abbiamo sperato di ritrovare Giulia viva, per poi ritrovarci a provare addirittura un senso di delusione quando abbiamo scoperto che Turetta, dopo il delitto, non si era ucciso. Questo tipo di copertura mediatica, capillare e dettagliata, minuto per minuto, che sempre più spesso viene riservata ai casi di femminicidio (che troppo spesso nelle narrazioni diventano dei veri e propri noir, unendo amore e morte come se fossimo in un romanzo) oltre a non avere alcuna funzione informativa utile rischia di essere dannosa.
Il caso di Giulia e la speranza di molti che Turetta si fosse ucciso indicano quanta confidenza abbiamo con l’omicidio come soluzione. Il continuo parlare di questi casi, rimestando nei particolari della storia, della relazione, del passato, rischia di far diventare le uccisioni all’interno delle relazioni una prassi sintonica, che non creano conflitto, che non scandalizzano più, quindi un fatto “normale” e comprensibile, di far crollare tutte le barriere difensive e di tutela. Parliamone, certo, ma affinché questo sia utile a comprendere e a far sì che sempre meno se ne debba parlare.