Cronache

Sanità, il luminare Patrizio Rigatti ad Affari: "La morte è una nemica da combattere. Battute in sala operatoria? Così si stempera l'ansia"

L'intervista esclusiva al chirurgo di fama mondiale che è stato Direttore di Dipartimento urologico del San Raffaele e in seguito dell’IRCCS Auxologico di Milano

di Lucrezia Lerro

Intervista esclusiva al Professor Patrizio Rigatti. Il coraggio di un medico vero 

Patrizio Rigatti è un chirurgo di fama mondiale, è stato Direttore di Dipartimento urologico del San Raffaele e in seguito dell’IRCCS Auxologico di Milano. Patrizio Rigatti è un luminare, ma credo, grazie all’ascolto dei suoi racconti sull’infanzia, che fosse un apprendista ‘medico’ già da bambino. Lo era per come osservava con curiosità e coraggio suo padre mentre medicava i pazienti che arrivavano in emergenza dritti in casa, l’ambulatorio faceva parte della loro quotidianità.

Suo padre era Danilo Rigatti, nato a Empoli, dapprima ufficiale medico del Distretto militare di Siena e poi, medico generico della stessa città, un uomo con uno spirito speciale, “il suo buonumore contagiava sia in ambulatorio che al ristorante,” così racconta il Professor Rigatti, ”per non parlare di quanto la sua figura umana e professionale fosse importante e preziosa per la contrada del Drago, dove sono cresciuto.”

Le contrade di Siena sono diciassette e corrispondono alle suddivisioni storiche al di qua delle mura medievali. Patrizio Rigatti ha vissuto e ha studiato a Siena, anche se da tanti anni è diventato il punto di riferimento dell’urologia milanese e mondiale. Fortunati noi che viviamo in questa formidabile città per molti aspetti unica anche dal punto di vista della sanità, fortunati quelli, che come me, possono scoprire il pensiero illuminato del Professor Patrizio Rigatti.

Qual è il suo ideale di medico?

Mio padre perché accoglieva chiunque, il suo lavoro era aiutare in qualsiasi circostanza gli altri, è senza dubbio lui il mio ideale di medico. 

Che cos’è per lei la morte?

Per me la morte è una nemica da combattere, è una nemica tutti i giorni in sala operatoria.

Qual è il rapporto di un chirurgo con la morte?

Quando non ce la fai a salvare una persona ammalata, ti resta addosso un senso di sconfitta, è molto brutta la sensazione di non poter far nulla. Capita sia quando vedi gli ammalati in ambulatorio, al di là del bene e del male, che vengono lì e ti guardano fisso negli occhi, magari con qualche domanda di quelle fortissime, e che ti dicono “professore faccia qualsiasi cosa.” E non sai come dir loro la verità, che se gli metti un dito addosso muoiono per come la malattia è progredita. Quindi capita sia in ambulatorio e sia durante l’intervento, oggi sempre meno perché abbiamo molta diagnostica alle spalle che ci aiuta a riconoscere le malattie in modo precoce.

Lei ricorda qual è stato il primo paziente che ha perso?

Quando non c’era la diagnostica di oggi, la Pet ad esempio, aprivi e ti trovavi davanti a situazioni drammatiche. Ma ho sempre pensato che si potesse fare qualcosa, ho sempre cercato, anche nelle situazioni più disperate, di fare qualcosa per il paziente.

Tantissimi anni fa con il mio gruppo di lavoro riuscimmo a togliere un grosso tumore alla prostata ad un paziente, ma nonostante la gran fatica e gli ottimi risultati, il paziente era entrato mesi dopo in uno stato depressivo tale che si tolse la vita. Pensi che non aveva più il tumore, ma forse la paura delle recidive e lo stress l’avevano completamente destabilizzato. A chi viene fatta una diagnosi di tumore cambia completamente la vita. Si entra in una dimensione terribile, difficilmente si può spiegare a parole, ma chi subisce la malattia è come se subisse una trasformazione psicologica irreversibile, anche nei casi di guarigione.

Che cosa ricorda di quel paziente gravissimo che arrivò da lei in pronto soccorso e che cucì dalla testa ai piedi? Ho letto questo racconto in una testimonianza che ho scovato

E’ difficile dirlo perché in quei momenti il medico deve essere molto concentrato su quello che sta facendo. Ci sono delle situazioni che per noi medici possono essere normali. E’ difficile trasmettere ciò che si prova, ciò che si sente. L’attenzione, ripeto, è massima sul paziente. Perché basta un niente che tu lo perda. Manovre, recupero di vasi che sanguinano, sono situazioni che richiedono grande dedizione. Bisogna essere molto attenti, veloci, determinati. E lì gioca molto l’esperienza, se ne hai non drammatizzi su nulla. Qualsiasi cosa ti capita non sei nel terrore, vai avanti. Vengo da una storia lunga di pronto soccorsi, vedevo tutti i pazienti che arrivavano in tante situazioni. Ne ho girati tanti di pronto soccorsi… Una volta è arrivato un paziente al quale avevano sparato, non ha fatto in tempo nemmeno ad arrivare in sala operatoria. Arrivava di tutto anche al pronto soccorso del Policlinico.

Freud parla di precisione chirurgica, parlando dello psicologo… se lei potesse raccontarci che cos’è la precisione chirurgica per un medico che cosa direbbe?

E’ fondamentale l’obiettività che tu hai e sai comunicare al tuo ambiente. E anche la tranquillità di quelli che ti aiutano, che possano farlo bene. Di mantenere i divaricatori, ad esempio, o di darti gli strumenti nel tempo giusto, è questione di velocità in certe situazioni difficilissime e delicate.

Ha un sistema per tenere l’attenzione alta dei collaboratori in sala operatoria? Lei che operava fino a nove persone al giorno e tuttora in quanto a interventi non è secondo a nessuno. Cinquantacinquemila interventi fatti e continua ad operare a Milano, a Lecco, in Sicilia…

Sì avevo un sistema, facevo spesso delle battute, i collaboratori si rilassavano. Si rilassano. L’ho trovato molto utile per affrontare situazioni impegnative. Lavorando ho trovato un modo per stemperare l’ansia che ti circonda mentre fai un intervento complesso. Avere un ambiente rilassato è molto molto più utile per un chirurgo. E quindi con le battute ti sorridono, ti sentono più tranquillo, e ti aiutano meglio. Tutta eredità di mio babbo che era una fabbrica di battute, era il mio modello di medico, il medico che aiuta tutti.

Suo padre faceva delle battute durante le visite ai pazienti…

Ripeto, lui era una fabbrica di barzellette. Era medico di medicina generale, dopo un po’ che si era al ristorante attraeva tutti facendoli ridere. Mio padre Danilo, aveva davvero uno spirito particolare.

Trasformava tutto il carico di responsabilità con le battute

Sì, è un’eredità, un salvavite in sala operatoria.

Lei ha operato Berlusconi, Strehler, Montanelli, solo per citarne alcuni

Indro Montanelli era stato purtroppo studiato male, era arrivato con diagnosi sbagliate. Alla fine l’ho valutato ed aveva un brutto male. Volevo alleviargli le pene, ma la malattia era al di là di qualsiasi possibilità di guarigione. Poi si è fatto operare per cercare di alleviargli le pene, ma stava già malissimo. Aveva dei dolori che erano al di là di qualsiasi filosofia. Non gli era stato diagnosticato il tumore. Male interpretazione diagnostica, capita purtroppo nella nostra professione.

Ha avuto in sala operatoria esperienze di premorte?

Recentemente ho incontrato alla presentazione di un libro, dove ero stato invitato come relatore, un paziente che dopo trentacinque anni dall’asportazione della vescica e dalla ricostruzione di una neovescica con segmento intestinale mi ha detto testualmente: “lei non si ricorderà di me ma mi ha operato 35 anni fa di una malattia per altri centri inoperabile. E sono ancora vivo e sto bene.” Ed è stato per me il momento più bello della serata.

Invece, per quanto mi riguarda, le racconto una personalissima esperienza. A quattordici anni ero al mare con il mio babbo, siamo usciti sul pattino insieme ad altri due suoi amici. Al ritorno il mare mosso ha fatto rovesciare il pattino ed io sono rimasto sott’acqua perdendo i sensi. Ho visto un lampo di luce molto bianca, bianchissima, il fondo di bianco si stava allargando, era un fondo brillante, con una luce intensa centrale. Come un faro. Mi ha tirato fuori da sotto il pattino per una gamba un amico del babbo.

Cosa pensa della vita dopo la morte?

Secondo me esiste la vita dopo la morte… da ragazzo ho partecipato a delle sedute spiritiche, e più spiriti evocati hanno detto che stavo vivendo la mia seconda vita. Me ne mancherebbero ancora cinque, se è vero che per ognuno ne sono previste sette.

Quanto la sofferenza psicologica può influire sull’esordio di una malattia oncologica?

Ne sono convinto, da quando ho cominciato a fare la mia professione, ho potuto fare esperienza che in molti casi l’ansia, l’angoscia, le preoccupazioni, lo stress, anche non inerenti alla malattia di quel momento, possono far insorgere una malattia molto grave in tempi successivi. La causa principale, probabilmente, è la diminuzione del nostro sistema immunitario di difesa.