Culture
Omosessualità da Zeus all'antica Roma. La "forzata" società maschilista. Libro
Illuminante saggio di Eva Cantarella, "Gli amori degli altri. Tra cielo e terra, da Zeus a Cesare"
di Gaetano di Thiène Scatigna Minghetti
Anno 225 avanti Cristo: viene varata la lex Scatinia di cui si rese promotore il tribuno della plebe Gaio Scatinio Capitolino; varata per arginare, nell'Urbe, l'ormai dilagante omosessualità passiva maschile la quale, oltretutto, era duramente riprovata dai benpensanti romani che riconoscevano in essa una pratica totalmente contraria ai mores maiorum ed alla filosofia di vita che aveva caratterizzato, sin dalle più remote origini della Città-impero, la mentalità e lo stigma comportamentale dei cosidetti “quiriti” irriducibili dominatori della massima parte delle terre all'epoca conosciute e, come oggi è usuale affermare, imperialisti impenitenti: “... Fuit autem hoc nomine quidam tribunus pleb., nempe C. Scantinius (Scatinius), qui legem tulit de nefanda Venere punienda, si legge nel Lexicon Totius Latinitatis.
Ora, a spiegarne più articolatamente quale fosse la situazione nell'antica Roma -ma non soltanto nella caput mundi bensì anche, per alcuni versi, ancora di più, nella civilissima Ellade, che ha “eccitato” nell'intero Occidente ogni elemento positivo di vita sociale e culturale- è arrivato un illuminante saggio di Eva Cantarella, Gli amori degli altri. Tra cielo e terra, da Zeus a Cesare, Milano, La nave di Teseo, 2018, che scandaglia, con avvertita sicurezza, quali fossero i gusti sessuali non soltanto degli immediati antenati romani ma altresì e, soprattutto, dei “progenitori” ellenici. Con tutte le sfaccettature prismatiche che gli approcci ai diversi sentimenti amorosi venivano esplicate, non semplicemente tra gli uomini, che sarebbe, forse e a ben considerare, un fatto normale, quasi banale, scontato, bensì tra gli dei, i semidei, gli eroi dei racconti mitologici. Così, si vedono sfilare, sotto la lente d'ingrandimento dell'Autrice, per proporli al lettore, nella maniera più asettica possibile, sebbene con un sotteso pizzico di ironia, tutti i personaggi che hanno riempito le pagine delle creazioni letteratie, poetiche, teatrali; che hanno fornito il carattere identitario alla civiltà dell'Occidente la quale, ancora oggi, nonostante siano trascorsi alcuni millenni, individuano indefettibilmente le popolazioni che abitano nel vecchio Continente. Senza che risulti scalfita nella propria feconda essenzialità matetica tutta una gamma di protagonisti, sia femminili sia maschili, con il proprio, personale aplomb, che rispondono al nome di Alfeo, un fiume, e di Aretusa, una ninfa; di Borea, il vento del Nord, e Orizia, la figlia del re; ancora, Borea e le tremila cavalle di Erittonio; Zeus, il primo molestatore seriale; Elena, un'adultera molto speciale, e Paride, per gli amori dei quali virulenta scoppiò la guerra di Troia ed “ 'l superbo Ilion fu conbusto”, come si esprime Dante nel primo canto dell'Inferno.
L'Autrice esamina, con vaglio disincantato e freddamente oggettivo, numerosi amori degli “altri”, che però, se vi si pone mente, tanto lontani, tanto ”altri” da noi non sono, mentre distingue, con meticolosa acribìa, tra eros e philìa, soffermandosi, nel considerare anche le funzioni e le regole dell'omoerotismo maschile focalizzando il legame tra i due eroi omerici, protagonisti dell'Iliade, Achille e Patroclo, svelando finalmente, con dovizia di inoppugnabili prove, che in questa coppia omosessuale, caratterizzata da una “philìa, non coniugale, il ruolo attivo fosse quello esercitato da Patroclo, l'Erastes, e non come si è creduto finora, data la sua intensa personalità ed il forte taglio del suo eroismo, da Achille, l' eromenos, che si lamenta con “alti lai” della morte dell'amante per mano di Ettore che, per questa sua “audacia”, sarà ucciso dall'avversario, il re dei Mirmidoni, figlio di Peléo e della dea del mare, Teti, che, notoriamente, era ritenuto il più importante eroe della Grecia antica della quale determinò la vittoria contro la città di Troia. “... in Grecia i raporti sessuali tra uomini erano infatti non solo ammessi, ma anche socialmente valutati in modo positivo, ma soltanto se legavano un adulto a un ragazzo. Era questa la famosa pederastìa... “ (p.113) che aveva nella pratica del coito intercrurale, ossia tra le gambe del patner, uno dei topoi più specifici, ma del resto maggiormente consueti, nell'ambito di questi particolari rapporti.
È, però, nella pratica erotica del popolo di Roma che viene incarnato tutto il sentire amoroso di questo popolo di dominatori che hanno lasciato al mondo un'eredità impareggiabile. Retaggio che costituisce, anche nella realtà odierna, il substrato immarcescibile della quotidianità usuale e dei rapporti non soltanto interpersonali, bensì ancora, tra gli Stati in una osmosi esemplare e feconda con la civiltà giuridica dell'orbe terracqueo, intero, che non presenta l'eguale in altri contesti molto più antichi e di lunga tradizione. Riposa in questo ambito, trovando in esso l'umus più fertile e vitale, l'autocelebrazione della virilità di un popolo, maschio per antonomasia, che ha fatto del dominio sugli altri, l'ordinario modus vivendi, sin dal cruciale momento dirimente del ratto delle Sabine, che venne ordinato da Romolo, il quale intendeva, in tal modo, popolare la futura capitale del mondo con lo stratagemma furbesco dell'inganno e della platealità stessa dell'esecuzione.
Ad uno sguardo disincantato, in realtà, la storia di Roma risulta tutta un inno, tutta un peana alla mascolinità che celebra, con la jattanza tipica del dominatore, le superne doti di un popolo pieno di risolutezza e di nerbo, sebbene questi, in alcuni specifici casi, più che alle donne, rivolgesse le proprie attenzioni sessuali agli altri maschi infrangendo, in tal modo, il tabù di una mascolinità più conclamata, più esibita senza che essa fosse in realtà vissuta ed effettivamente esercitata. Il caso di Caio Giulio Cesare (100 – 44 a. C.), “il marito di tutte le mogli e la moglie di tutti i mariti”, come veniva irriverentemente apostrofato, costituisce l'exemplum probante della sotterranea ambiguità che caratterizzava la società maschilista dei Romani, che, come una sorta di sinuoso fiume sotterraneo, attraversava la storia di Roma e le sue più manifeste espressioni dell'esistenza socio-religiosa e civile dell'Urbe. Anche se, ogni tanto, venivano registrati dei soprassalti di pudibondo rossore che raggiunse il proprio culmine sommitale con la promulgazione, da parte del tribuno della Plebe, Gaio Scatinio Capitolino, della omonima legge che mostrava tutti i crismi tipici di coloro che nascondono i vizi privati ed intendono, del resto, salvare la faccia: “Attorno al 225 a. C., oltre a essere fortemente biasimata, quella che oggi viene chiamata omosessualità passiva -è la considerazione che desidera consegnare al lettore la studiosa Eva Cantarella- era stata sanzionata da una legge (la lex Scatinia), per altro mai applicata. Più che altro, era stata un manifesto del principio che la passività sessuale non era romana. Ma questo non aveva impedito che nella prima età imperiale questa fosse entrata a far parte delle pratiche di un notevole numero di cittadini”(p. 227).
Ma, a riscattare la mortificata virilità dei Romani, provvedono le cosiddette scritture di strada che informano di sé, sostenendola alla grande, quella che l'Autrice in dividua come “l'etica del vanto” la quale, a sua volta, ha costituito, indiscutibilmente, l'origine, “la nascita del latin lover” che celebrerà i suoi fasti, in modo peculiare, nella seconda metà del Novecento, in concomitanza con il boom economico letteralmente scoppiato quando l'Italia, scrollatisi di dosso i sacrifici e le rinunce del periodo bellico della Seconda Guerra Mondiale, si avviava, con quasi parossistica frenesia, a vivere una stagione di libertà e di benessere, personale e collettivo.
È, questa, la temperie culturale, ma a parere di alcuni esponenti della sincrona società britannica, in cui il latin pisser, con questa naturalissima espressione fisiologica, affermava se stesso e marcava, di conseguenza, il proprio territorio di conquista. È, altresì, il momento in cui il maschio italiano, consapevole dell'eredità commessagli dagli antenati dell'Urbe, esercita, anche in questa funzione liberatrice, tutta la sfrontata superiorità sugli altri esponenti del suo sesso e, ancora di più, è ovvio evidenziarlo, sull'altra metà del cielo.
Le scritte realizzate a Pompei sulle pareti delle case della città vesuviana, e riportate alla luce dagli scavi sistematici condotti in quello splendido centro urbano, riscattano, sebbene solo in parte, la dominatrice virilità dei ragazzi e dei giovani romani che costituiscono la spia credibile di una ostentazione socio-sessuale che non si sa quanto reale essa possa stimarsi. Ma, le si devono ritenere per buone nonostante che, il vero maschio, secondo la mentalità odierna, non vada in giro per le strade delle città a proclamare ai quattro venti, al colto e all'inclita, con reboante sicumera, le proprie eclatanti prestazioni sessuali. Sia da solo, sia insieme con i sodali di avventure, dediti ai bagordi e alle lussurie che il Poliziano (1454 – 1494), nelle sue rime biasima nei termini riprovevoli del finto amore che di esso usurpa la facies, ma che, realmente, è esclusiva brama di concupiscenza incontrollata, di carnali godimenti: “La lussuria entrò ne' petti e quel furore / che la meschina gente chiama amore”: Hic futui cum sodalibus è il programma ideologico di un mondo che forse non temerà scomparsa alcuna finchè sulla faccia del pianeta ci sarà qualcuno che renderà pubblico come l'amore sia il sale del mondo. E con esso sarà resa feconda ogni umana manifestazione che si nutrirà del sentimento amoroso che, continuativamente, dà vita all'uomo ed alla società in cui egli vive e si riproduce, secondo l'auspicio biblico del crescete e moltiplicatevi come le sabbie del mare e gli astri del cielo.
Hic ego cum domina resoluto clune peregi, tales sed versus scribere turpe fuit (p. 162). Si tratta, qui, di due contestuali dichiarazioni, contraddittorie in apparenza, ma che si intersecano, quasi dialetticamente, che materializzano plasticamente tutto un comportamento asseverativo ed il suo immediato diniego, in forma di pentimento, per avere propagandato la sua performance: quale delle due è quella autentica, sincera? Analizzando la scrittura testimoniale sui muri di Pompei, si dovrebbe propendere per la prima: la più naturale, la più spontanea: liberatosi del subligaculum, il ragazzo è rimasto resoluto clune e ha potuto così peragĕre, senza impedimento di sorta, con il proprio lato b, dolcemente vellicato dal vento.
Bene ha fatto Eva Cantarella, a questo punto, nel declinare le innumeri sfumature dell'amore nel proprio saggio dalla scrittura sottilmente sapida e brillante, nervosa ma sagace. Ma, perchè gli amori degli altri? Sono essi, gli amori di tutti, gli amori di sempre! Senza tempo! Che attraversano i luoghi, i millenni in un circolo virtuoso -ma, se ben si considera, anche vizioso- che ne proclama la particolare essenza e l'essenzialità peculiare, che accattiva e respinge, che incanta ed ammalia in un sempiterno gioco d'intrecci e di rimandi che non conoscerà fine se non quando scomparirà l'uomo: con le sue virtù e i suoi furori, le sue lascivie e le sue purezze. Io, sommessamente, credo di no!