Bologna, in mostra le visioni fotografiche della tecnosfera
Nel capoluogo emiliano è aperta la quarta Biennale di Fotografia dell’Industria e del Lavoro
di Raffaello Carabini
Il rapporto tra fotografia e industria è attivo da decenni. Non solo perché l’ottava arte ha avuto commissioni importanti dal mondo manifatturiero, sia a scopi promozionali che di presentazione, ma anche perché questo mondo, con la sua ininterrotta attività tanto diversificata, fatta di lavoro, di macchinari, di architetture, di scarti, è una fonte di ispirazione costante per chi vuole realizzare immagini di valenza non solo artistica, ma anche sociale.
A Bologna, città dove si è sempre posta attenzione alle problematiche e alla realtà, ai valori e alle diversità, che l’universo dell’attività umana, in qualunque ambito, esprime, si svolge dal 2013 la Biennale dedicata alla fotografia dell’industria e del lavoro.
La quarta edizione, che chiuderà i battenti il prossimo 24 novembre propone ben 11 mostre in altrettante sedi storiche del centro e al MAST (Manifattura di Arti, Sperimentazione e Tecnologia, ma anche “albero maestro” nel significato anglosassone), che la organizza, con l’intento di condividere con il resto della città, coinvolgendolo direttamente, l’idea culturale della Fondazione MAST, che lo vuole tramite tra l’impresa e la comunità.
Il MAST ospita già una collezione di fotografia industriale ed è l’unica istituzione al mondo dedicata questo genere fotografico, di cui porta ancora una volta a Bologna i talenti migliori, ispirati dal tema ufficiale “tecnosfera: l’uomo e il costruire”, che li vede impegnati a illustrare agli spettatori l’insieme delle strutture che gli esseri umani hanno costruito per garantire la loro sopravvivenza sulla Terra.
Citiamo innanzitutto i maestri della storia della fotografia: il fotografo tedesco della Nuova Oggettività Albert Renger-Patzsch con i suoi storici Paesaggi della Ruhr alla Pinacoteca Nazionale, l’ungherese André Kertész con gli inediti Tires/Viscose del 1944 a Casa Saraceni e le Prospettive industriali che sembrano nature morte del nostro Luigi Ghirri a Palazzo Bentivoglio.
Più attenti agli aspetti sociali e politici della tematica sono Lisetta Carmi, che nella sua esposizione all’Oratorio di Santa Maria della Vita intitolata Porto di Genova guarda il lavoro dell’uomo, il tedesco di Milano Armin Linke, che presso la Biblioteca Universitaria indaga lo sfruttamento dei fondali marini con Prospecting ocean, e Délio Jasse, che ci mostra Luanda, capitale dell’Angola dove è nato, metropoli dall’altissimo tasso di crescita, in Arquivo urbano a Palazzo Paltroni.
Lavorano sul decadimento delle costruzioni il belga David Claerbout (in Olympia a Palazzo Zambeccari simula la dissoluzione secolare del grandioso Olympiastadion di Berlino) e il giapponese Yosuke Bandai (al Museo Internazionale della Musica propone i rifiuti di A certain collector B). Mentre l’americana Stephanie Syjuco (che al MAMbo ripercorre oggi l’evoluzione della San Francisco del 1906 in Spectral city) e lo svizzero Matthieu Gafsou (alla Pinacoteca Nazionale propone H+ sulla tecnologia come potenziamento dell’uomo) guardano all’ineluttabilità del continuo costruire.
Infine alla Fondazione MAST la mostra clou, aperta fino al 4 gennaio, titolata Anthropocene, in cui i canadesi Edward Burtynsky, Jennifer Baichwal e Nicholas de Pencier illustrano con immagini, video e installazioni i segni lasciati dall’uomo sui diversi strati geologici del nostro pianeta.
A corollario delle esposizioni si terranno numerosi eventi (quasi tutti al MAST, ingresso gratuito e prenotazione obbligatoria): incontri con gli artisti e i curatori, una rassegna di film a tema, tavole rotonde con importanti fotografi, performance teatrali e concerti, workshop per i più piccoli.
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