Famiglia, lavoro e gender gap: così le madri (non) conciliano i tempi
Il report sulla famiglia e il mondo del lavoro realizzato dall’Osservatorio Statistico dei Consulenti del Lavoro
La famiglia italiana? Rivoluzionata in appena 11 anni. Dal 2004 al 2015 infatti i nuclei familiari si sono trasformati profondamente, rimpiccioliti (spesso sono formati da una sola persona) e, soprattutto, non è affatto migliorata la situazione delle donne. Lo rivela il rapporto “Famiglia, lavoro, gender gap: come le madri-lavoratrici conciliano i tempi”, realizzata dall’Osservatorio Statistico dei Consulenti del Lavoro pubblicata in occasione del Festival del Lavoro 2016, che si tiene dal 30 giugno al 2 luglio) a Roma.
Le donne infatti fanno pochi figli e, soprattutto, fanno registrare un alto livello di inoccupazione a causa degli inadeguati servizi per le madri lavoratrici e dei costi del lavoro domestico. Molte di loro vorrebbero lavorare ma rimangono bloccate perché sono le uniche a potersi prendere cura dei bambini o degli anziani non autosufficienti. E il welfare aziendale? In Italia sembra essere ancora un miraggio.
ECCO LA RICERCA IN SINTESI
1. Una famiglia su tre è composta da una persona sola, diminuiscono le coppie con figli
In poco più di un decennio (2004-2015) sono cambiate profondamente le caratteristiche delle famiglie: il nucleo familiare classico costituito da una coppia con figli, pur rimanendo maggioritario, subisce una lieve flessione, mentre aumenta in modo consistente il numero delle persone sole (figura 1.1). Una famiglia su tre è composta da un single, come conseguenza di profondi mutamenti demografici e sociali, primo fra tutti il progressivo invecchiamento della popolazione, l’aumento delle separazioni e dei divorzi, come pure la crescita sostenuta di cittadini stranieri che, almeno quelli di prima generazione, vivono in famiglie prevalentemente unipersonali. Il declino della famiglia mononucleare classica è accompagnato anche da un aumento significativo delle coppie senza figli e soprattutto delle famiglie monogenitoriali. Complessivamente le famiglie tendono a essere sempre più piccole e perciò sempre più frammentate e socialmente isolate, soprattutto tra gli anziani. L’aumento dei single e la diminuzione del tasso di fertilità ha determinato nell’ultimo decennio la stagnazione delle famiglie con figli (11 milioni) e la crescita di quelle senza figli, da 12 milioni nel 2004 a oltre 14 nel 2015.
La tesi sull’alta quota di single tra gli immigrati è confermata dalla loro alta percentuale, che supera il 40% (32% tra gli italiani), grazie soprattutto a quelli che provengono dai paesi dell’Unione europea (la Romania, la Bulgaria, la Polonia, ma anche molti moldavi hanno il passaporto rumeno), che hanno un progetto migratorio molto definito: entrano ed escono dal nostro pase senza alcun bisogno del permesso di soggiorno, con l’obiettivo di accumulare risorse per tornare a casa e vivere la restante parte della vita in una condizione di relativo benessere economico. Viceversa, è relativamente più bassa la quota di single tra gli stranieri extracomunitari, che hanno una diversa strategia migratoria basata sull’insediamento stabile nel paese ospitante e sui ricongiungimenti familiari successivi.
Trattandosi in prevalenza di stranieri della prima generazione, non sono stati ancora effettuati tutti i ricongiungimenti, anche se un terzo di loro (33,7%) vive in una coppia con figli. È più elevata tra gli italiani la quota di coloro che vivono in una coppia senza figli (20,8%), percentuale che registra il valore più basso tra gli extracomunitari (8,4%). La quota di persone sole è più elevata nella media delle regioni del Centro (35,2%) e del Nord (34,9%), mentre questa percentuale è inferiore alla media nazionale nel Mezzogiorno (33,1%). Le quote di famiglie composte da monogenitori sono abbastanza simili in tutte le ripartizioni, mentre la percentuale più elevata di famiglie con figli si osserva nel Mezzogiorno (40,3%), seguito dal Centro (31,1%) e dal Nord (31,7%). Nel Nord si registra la quota più elevata di coppie senza figli (21,8%), che è superiore di oltre 4 punti percentuali a quella del Mezzogiorno Emergono evidenze particolarmente interessanti circa i processi di riarticolazione delle strutture familiari dal 2004 al 2015 nelle ripartizioni territoriali: solo nel Mezzogiorno diminuisce il numero delle coppie con figli (-4,7%), compensata soprattutto dal forte aumento delle persone sole (36,7%), dei monogenitori (26,9%) e delle coppie senza figli (16,3%).
Questo fenomeno si può spiegare tenendo conto del modesto afflusso degli immigrati nel Mezzogiorno e del più basso numero medio di figli per donna: 1,29 a fronte di un tasso di fecondità superiore nel Nord (1,41) e nel Centro (1,33). Le differenze territoriali sono spiegate in larga misura dal diverso contributo delle donne straniere, che al Nord è di gran lunga più rilevante, perché maturato sia da una maggiore presenza nel territorio sia da una più alta propensione riproduttiva. I livelli più elevati della fecondità delle donne straniere si registrano, infatti, tra le residenti al Nord in misura di 2,06 figli per donna, mentre le straniere che risiedono nel Centro e nel Mezzogiorno hanno in media, rispettivamente, 1,67 e 1,84 figli per donna.
Il comportamento riproduttivo delle italiane è caratterizzato da una sostanziale omogeneità territoriale, frutto di una fecondità pressoché identica a livello di ripartizioni geografiche: 1,28 figli nel Centro-nord, 1,27 nel Mezzogiorno.
Nel Nord si osserva, dal 2014 al 2015, un aumento del numero delle famiglie (12,1%) determinato soprattutto dalla crescita significativa delle persone sole (30,4%), dei monogenitori (18,6%) e delle coppie senza figli (9,1%), mentre l’aumento delle coppie con figli è marginale (1,4%). Particolarmente rilevante è la crescita delle persone sole nella media delle regioni del Centro (55,9%) a causa della sempre maggiore presenza di anziani e dei monogenitori (32,8%), mentre il numero delle coppie con figli aumenta in modo modesto (1,7%).
2. Alle madri con bassi salari non conviene lavorare
Un altro fattore che incide quasi esclusivamente sul tasso d’occupazione femminile è il costo del lavoro domestico e per la cura dei figli, svolto gratuitamente dalle madri, che dovrebbe invece essere pagato nel caso la donna decidesse di lavorare: infatti, le donne che si aspettano di guadagnare uno stipendio più alto delle spese che dovrebbero sostenere per i servizi sostitutivi del lavoro domestico e di cura dei familiari sono potenzialmente più propense a lavorare, viceversa alle madri meno istruite e con minori qualifiche professionali, che hanno un’aspettativa salariale più bassa, non conviene lavorare dal momento che il costo dei servizi sostitutivi rischia di essere più alto del salario che possono guadagnare, a meno di disporre di una rete familiare di caregiver. Il costo dei servizi sostitutivi del lavoro domestico e di cura dei bambini, in assenza di nonni o di altri familiari, è pari a circa 500 euro al mese.
Questa tesi è confermata dall’analisi del tasso d’occupazione femminile per titolo di studio: cresce con l’aumento del livello d’istruzione, dal momento che è molto probabile che a titoli di studio più alti corrispondono anche salari più elevati, che consentono di pagare più agevolmente i servizi di cura dei bambini (figura 2.1). Infatti, il tasso di occupazione di una madre con al massimo la licenza media diminuisce in modo drammatico dal 45% nel caso la lavoratrice abbia un figlio al 36,7% con la nascita del secondo figlio, al 26,4% con il terzo figlio e al 18,6% con quattro o più figli. Anche per le madri diplomate il tasso di occupazione diminuisce drasticamente dal 64,6% (1 figlio) al 43,2% (4 figli e più). Per le laureate la nascita di uno o tre figli determina il fenomeno contrario perché aumenta il tasso di occupazione dal 79,8% all’81%, probabilmente perché aumenta il bisogno di un reddito da lavoro per far fronte all’incremento significativo delle spese per mantenere i figli, a fronte dell’aspettativa di una retribuzione elevata che copre queste spese. Solo con 4 figli e oltre diminuisce leggermente il tasso di occupazione delle laureate. La differenza tra il tasso di occupazione delle donne con al massimo la licenza media e di quello delle laureate raddoppia, come è del resto atteso, con l’aumento del numero dei figli e delle spese per il loro mantenimento, da 34,9 a 54,6 punti percentuali.
È prioritario, di conseguenza, ridurre il costo dei servizi di cura per l’infanzia attraverso agevolazioni fiscali e soprattutto con misure più ampie come quelle di welfare aziendale che prevedano la partecipazione ai costi da parte delle imprese, rivolte innanzitutto alle fasce di lavoratori con più bassi livelli d’istruzione e quindi di reddito.
Solo 21 madri su 100 non lavorano e non cercano lavoro a causa dell’inadeguatezza dei servizi di cura dei bambini e degli anziani non autosufficienti
Ma occorre osservare che delle circa 900 mila madri che sono inattive perché devono prendersi cura dei figli o di persone non autosufficienti, solo il 21% dichiara che non ha cercato lavoro perché nella zona in cui vive i servizi di supporto alla famiglia, compresi quelli a pagamento (baby-sitter e assistenti per anziani), sono assenti, inadeguati o troppo costosi e il 79% afferma che non ha cercato lavoro per altri motivi (figura 2.2).
Di conseguenza, “solo” circa 190 mila madri inattive potrebbero rientrare nel mercato del lavoro se i servizi per l’infanzia fossero più diffusi e meno costosi. Queste informazioni portano a concludere che la scelta di non cercare un’occupazione da parte della grande maggioranza delle madri inattive per motivi familiari è volontaria, anche se in alcuni casi condizionata da stereotipi di genere e da motivi culturali. Infatti, è emerso da alcuni studi che la decisione di non lavorare deriva anche dalla convinzione che la qualità dell’assistenza che può dedicare una madre ai figli non è comparabile con quella di un asilo o di una babysitter e, per quanto riguarda esclusivamente alcune etnie d’immigrati, dal confinamento del ruolo delle donne fra le mura domestiche. Del resto, anche nel resto dell’Unione europea il 50% dei bambini sotto i tre anni è assistito dai genitori, e solo il 28% è affidato agli asili nido. L’influenza di motivi culturali nella decisione di non lavorare in presenza di figli dei figli emerge anche dall’analisi delle risposte delle donne per cittadinanza: il 77% delle madri italiane dichiara che non ha cercato lavoro per altri motivi, diversi da quelli dell’inadeguatezza dei sevizi di cura per l’infanzia e le persone non autosufficienti, ma una percentuale maggiore di 7 punti percentuali si registra tra madri immigrate extracomunitarie (84%) e, in misura minore, tra le straniere comunitarie (81%).
3. Solo l’1,2% dei genitori ha trovato lavoro attraverso i centri pubblici per l’impiego
L’analisi dei canali attraverso i quali le madri e i padri con figli conviventi hanno trovato l’attuale lavoro consente di valutare l’efficacia delle attività formali e informali d’intermediazione tra la domanda e l’offerta di lavoro, in particolare dei soggetti pubblici e privati autorizzati o accreditati a far incontrare i lavoratori con le imprese. Le differenze di genere nei canali utilizzati dai genitori con figli conviventi per trovare l’attuale lavoro sono molto rilevanti: quasi un terzo delle madri ha utilizzato con successo la propria rete di parenti, amici e conoscenti (32,7%), mentre questa quota è più bassa tra i padri (31,2%) (figura 3.1). Il secondo canale per importanza utilizzato dalle madri è la ricerca diretta presso il datore di lavoro attraverso l’invio di curricula e la richiesta di colloqui (18,7%, 17,2% tra i padri), mentre tra i padri ha avuto più successo l’inizio di un’attività autonoma (20,9%, 11,5% tra le madri). Al terzo posto tra i canali più efficaci tra le madri è il concorso pubblico (16,3%, 10,2% tra i padri). Al di là delle giuste critiche sull’utilizzazione, spesso impropria, degli stagisti e sulla carenza delle attività formative che dovrebbero caratterizzare questo contratto a causa mista, il tirocinio è uno dei canali per la ricerca del lavoro più di successo che consente all’impresa di valutare effettivamente le capacità del candidato e che ha permesso di trovare un lavoro, nella stessa azienda presso la quale ha svolto lo stage, a una quota significativa dei genitori esaminati in questo lavoro: 6,3% tra le madri e 6,7% tra i padri. Il 5,3% delle madri è stata contattata direttamente dal datore di lavoro (6,3% tra i padri) e il 3,1% ha risposto ad annunci sui giornali o attraverso Internet (2,4% tra i padri). Viceversa, l’efficacia dei servizi pubblici e privati per il lavoro nell’intermediazione tra domanda e offerta appare decisamente modesta: solo l’1,5%% delle donne ha trovato l’attuale lavoro attraverso i centri pubblici per l’impiego (1,1% tra i padri), il 2,6% ricorrendo alle agenzie private per il lavoro (2,4% tra i padri) e solo lo 0,4% attraverso una struttura d’intermediazione pubblica diversa da un centro pubblico per l'impiego (0,2% tra i padri)
Confrontando a livello territoriale solo i genitori che hanno trovato l’attuale occupazione attraverso la più vasta rete dei servizi pubblici e privati autorizzati dallo Stato e accreditati dalle Regioni per l’intermediazione tra la domanda e l’offerta di lavoro1 , includendo anche gli stage e i tirocini che devono essere promossi dai soggetti indicati dalla legge, tra i quali i centri per l’impiego, le agenzie per il lavoro, le scuole e le università, i consulenti del lavoro, gli enti formativi professionali e gli altri soggetti accreditati dalle Regioni, una quota maggiore di genitori occupati che risiedono nelle regioni del Mezzogiorno e del Centro ha avuto successo attraverso questa rete (rispettivamente 25,9% e 25,3%, a fronte del 23% in quelle del Nord. Questa evidenza si spiega essenzialmente alla luce della più elevata quota di genitori che hanno trovato lavoro attraverso un concorso pubblico nel Mezzogiorno (15,5%) e nel Centro (15%), dove si concentra il maggior numero d’impiegati pubblici dell’amministrazione centrale e periferica, a fronte dell’10,9% nel Nord. Infatti, è maggiore la percentuale di genitori delle regioni settentrionali che hanno trovato l’attuale occupazione attraverso le agenzie private per il lavoro (3,8%, a fronte dell’1,5% nel Centro e lo 0,7% nel Mezzogiorno) e la segnalazione di una scuola o di una università (1%, a fronte dello 0,6% nel Centro e dello 0,4% nel Nord), mentre è più elevata la quota di genitori del Mezzogiorno che complessivamente sono stati intermediati con successo da un centro per l’impiego o da un’altra struttura pubblica (2,3%, a fronte dell’1,5% nel Centro e dell’1,2 % nel Nord) e attraverso gli stage (7,1%, a fronte del 6,7% nel Centro e del 6,1% nel Nord).
4. Nel Mezzogiorno una buona parte delle donne inattive sarebbe disponibile a lavorare immediatamente se ci fosse l’opportunità di un’occupazione regolare
L’Italia è il paese europeo con il più alto rapporto tra inattivi e popolazione: un terzo delle donne italiane 25-49enni (33,3%) − sono escluse, con la scelta di questa fascia d’età, le pensionate − non lavora e neppure cerca un’occupazione. Un tasso d’inattività così elevato non si registra in nessun altro paese dell’Unione (nella media dell’Unione a 28 paesi il tasso è pari al 20,1%), mentre quote molto più basse di donne inattive si osservano in Slovenia (10,7%), in Spagna (16,2%), in Francia (17%), in Germania (17,7%) e nel Regno Unito (20,2%). Anche il tasso d’inattività degli uomini è tra i più alti d’Europa (12%), superato solo dalla Bulgaria. Il tasso d’inattività delle madri con figli conviventi ha un andamento più virtuoso: ancorché di molto superiore a quello dei padri, diminuisce dal 2004 al 2015 di 3 punti percentuali, mentre quello dei padri aumenta, nello steso periodo, di circa 3 punti; mentre la crisi economica determina, dal 2008 al 2014, un aumento di 2 punti percentuali del tasso d’inattività dei padri, quello delle madri diminuisce nello stesso periodo di 2 punti, a causa del fenomeno del minor impatto della recessione sull’occupazione femminile. Il tasso d’inattività delle madri italiane con figli conviventi si attesta nel 2015 al 37%, mentre quello dei padri al 6%, anche se occorre precisare che, nel 2015, i padri rappresentano solo l’11% del totale dei 2,6 milioni di genitori inattivi (89% le madri). Il tasso d’inattività delle madri più elevato si osserva nel Mezzogiorno, dove quasi il 60% non lavora e non cerca lavoro, mentre quello più basso si registra nel Nord (25%).
La regione dove il tasso d’inattività delle madri è più alto è la Campania (61%), quella dove è più basso e il TrentinoAlto Adige (22%), dove quasi l’80% delle madri è attiva. Il tasso d’inattività più elevato dei padri si registra in Calabria (15%) e quello più basso in Umbria (2%). Ma se si divide tutta la popolazione in quattro condizioni professionali − occupati, disoccupati, forze di lavoro potenziali e inattivi non disponibili a lavorare − emerge una fotografia del mercato del lavoro meridionale piuttosto diversa e più veritiera di quella che si ottiene utilizzando solo i tre tradizionali indicatori (occupati, disoccupati e inattivi). Le forze di lavoro potenziali sono costituite in gran parte dagli inattivi disponibili a lavorare immediatamente se ci fosse l’opportunità, ma che non cercano attivamente un’occupazione e dagli inattivi che cercano un’occupazione attivamente, ma non sono disponibili a lavorare immediatamente. I disoccupati sono, invece, coloro che rispondono contemporaneamente ai due requisiti e cioè cercano attivamente un’occupazione e sono disponibili a lavorare immediatamente. Come si può osservare nel grafico successivo, non è completamente vero che quasi il 60% delle madri meridionali stia a casa, perché la quota d’inattive che non sono disponibili a lavorare si riduce al 31,4%, (figura 4.1).
Una percentuale pari al 24,8% è costituita dalle forze di lavoro potenziali, in gran parte costituite da persone che sarebbero disponibili a lavorare immediatamente se si presentasse l’occasione (98% delle FdLP) e che probabilmente sono costrette ad accettare lavori non regolari. Sono persone con caratteristiche non molto diverse da quelle dei disoccupati dai quali si distinguono solo per non aver cercato attivamente un’occupazione: è probabile che nel Mezzogiorno i canali formali di ricerca del lavoro non funzionino e siano più efficaci quelli legati alle reti di parenti, amici e conoscenti. Le madri del Mezzogiorno inattive non disponibili a lavorare sono pari al 31,4%. Le percentuali di forze di lavoro potenziali del Nord (6,7%) e nel Centro (9,5%) sono molto più contenute: di conseguenza la quota d’inattivi non disponibili a lavorare si riduce in misura minore rispetto alle forze di lavoro, passando al 18,5% nel Nord e al 19,9% nel Centro. Le forze di lavoro allargate (forze di lavoro + forze di lavoro potenziali) sono, di conseguenza, nel Mezzogiorno pari al 68,6%, quota inferiore di 13 punti rispetto a quella che si osserva nel Nord (81,5%).
5. Il profilo dei genitori che hanno fatto figli negli ultimi due anni: più istruiti, maggiormente occupati, il 40% esercita professioni altamente qualificate, oltre due terzi vivono nel Centro-Nord ed è maggiore la componente degli immigrati
È molto utile analizzare le caratteristiche dei genitori che hanno almeno un bambino fino a 2 anni di età, perché consente di delineare il profilo di chi ha fatto figli negli ultimi due anni, a fronte della continua diminuzione delle nascite in atto dal 2008, e di confrontarlo con quello di tutti gli altri padri e madri con figli di età superiore a 2 anni, che hanno procreato negli anni precedenti quando nascevano più figli. I primi sono nettamente più istruiti di quelli che hanno figli più grandi: la quota dei primi che hanno conseguito al massimo la licenza media (26,9%) è inferiore di oltre 15 punti percentuali rispetto a quella dei secondi (42%), la percentuale dei diplomati (47,4%) è superiore di quasi 4 punti (43,7%) e la quota dei laureati (25,6%) è maggiore di oltre 11 punti (14,3%). In particolare quasi un terzo delle madri con almeno un figlio nella prima infanzia è laureata (32%), mentre solo il 16% ha un titolo terziario tra quelle che hanno figli più grandi. Come è emerso nei paragrafi precedenti della ricerca, la propensione a fare figli è maggiore tra chi ha un lavoro più qualificato e meglio retribuito, che consente di far fronte alle spese per i servizi sostitutivi del lavoro domestico e di cura dei bambini, soprattutto se molto piccoli: la quota di genitori con figli molto piccoli che esercita professioni altamente qualificate è pari al 39,9%, valore superiore di oltre 8 punti percentuali rispetto a quello dei genitori con figli più grandi (31,5%) (figura 5.1). Questo differenziale è ancora più elevato tra le madri delle due platee e supera i 12 punti (47% tra le madri con bambini fini a 2 anni d’età e 34,7% tra quelle con figli più grandi). Di conseguenza la quota di madri che hanno fatto figli negli ultimi due anni e che svolgono mestieri non qualificati (7,4%) è inferiore di quasi 7 punti percentuali rispetto al resto della platea (14,2%).
Il 68% dei genitori che hanno fatto figli negli ultimi due anni risiede nelle regioni del Centro-Nord, e il restante 32% in quelle del Mezzogiorno, mentre le madri e i padri con i figli più grandi sono meno presenti nelle regioni centro-settentrionali (63,5%) e maggiormente in quelle meridionali (36,5%). Una maggiore quota d’immigrati è presente tra i genitori con i figli nati negli ultimi due anni (16,2%, a fronte del 13,2% tra i genitori con i figli più grandi), soprattutto tra le madri (17,2%, a fronte del 13,6%), a causa del maggiore tasso di fecondità degli stranieri, soprattutto extracomunitari. Il profilo dei genitori che hanno fatto figli negli ultimi due anni è, di conseguenza, molto definito: sono molto più istruiti, maggiormente occupati, il 40% esercita professioni altamente qualificate, oltre due terzi vivono nel Centro-Nord ed è maggiore la componente degli immigrati, nel confronto con la parte restante della platea di madri e padri che hanno procreato negli anni precedenti, quando nascevano più figli. Questa evidenza consente di ipotizzare che la continua diminuzione dei nati dal 2008 sia in parte determinata dal protrarsi della congiuntura economica negativa che ha ristretto il numero delle famiglie con retribuzioni sufficienti a mantenere i figli e per pagare i servizi di cura dei bambini, tenuto conto che l’occupazione femminile, diversamente da quella maschile, non è stata colpita in modo significativo dalla recessione (il tasso d’occupazione femminile ha subito solo una modestissima riduzione dal 56,3% al 56,1%). Insomma oggi, diversamente dal passato, sono in prevalenza le fasce della popolazione maggiormente benestanti che fanno figli, anche perché il clima d’incertezza economica spinge molte famiglie con basso reddito a non avere bambini per paura che rischino di diventare indigenti. Neppure gli emigranti si sottraggono a questa dinamica negativa dal punti di vista demografico, dal momento che negli ultimi tre anni anche il numero di stranieri nati in Italia ha iniziato progressivamente a ridursi.
6. Il welfare aziendale: poco diffusi i servizi di conciliazione tra vita e lavoro
Il tema del costo dei servizi sostitutivi del lavoro domestico che, se superiore al salario atteso, rende non conveniente lavorare, viene ripreso nell’ultimo capitolo relativo al welfare aziendale. Di conseguenza, è prioritario per promuove l’occupazione femminile, ridurre il costo dei servizi di cura per l’infanzia attraverso agevolazioni fiscali e soprattutto con misure più ampie come quelle di welfare aziendale che prevedano la partecipazione ai costi da parte delle imprese, rivolte innanzitutto alle fasce di lavoratori con più bassi livelli d’istruzione e quindi di reddito. Difatti, lo Stato non è in grado di fornire al cittadino un sistema completo di welfare che copra ogni esigenza determinata dal progressivo invecchiamento della popolazione e dalla maggiore partecipazione delle donne al mercato del lavoro, a causa dei sempre più stringenti vincoli di spesa: le imprese, con il welfare aziendale, possono contribuire in modo significativo a migliorare la vita privata e lavorativa dei propri dipendenti e a facilitare la conciliazione tra vita privata e professione, aumentando anche il benessere in azienda, riducendo l’assenteismo, incrementando la produttività e l’efficienza organizzativa e favorendo migliori relazioni sindacali. Con la recente legge di stabilità 2016, è stata operata una profonda riforma delle norme fiscali relative al welfare aziendale: le modifiche introdotte rappresentano un cambiamento di enorme portata, poiché non si applicano solo ai beni e servizi erogati in sostituzione totale o parziale del premio di produttività, ma a tutti i benefit di welfare aziendale offerti ai lavoratori, al fine di superare il limite della volontarietà, aggiornare e ampliare il paniere di servizi, favorire lo sviluppo di strumenti che facilitino la fruizione dei servizi.
Nel 2014, le prestazioni di welfare aziendale più diffuse sono i buoni pasto e la mensa aziendale: i ticket-restaurant sono ricevuti complessivamente da circa 2,4 milioni di lavoratori, pari al 14% del totale dei lavoratori dipendenti, con valori nettamente più bassi per le donne. Le differenze di genere in valori assoluti dei percettori di buoni pasto sono spiegate dal minore numero di donne occupate rispetto agli uomini, mentre il gap delle incidenze percentuali possono essere messi in relazione alla minore diffusione di questo benefit nei settori economici più femminilizzati come l’istruzione (i professori non beneficiano dei ticket-restaurant), la sanità (i turnisti negli ospedali non ne hanno diritto) e la pubblica amministrazione (non ne hanno diritto gli impiegati pubblici che effettuano la sospensione del lavoro nell’ora del pranzo) (tavola 6.1). Le profonde differenze di genere sui buoni pasto si rilevano anche analizzando il numero medio di ticket erogati in un mese (18,3 tra gli uomini e 16,6 tra le donne), mentre sono ovviamente minori in relazione valore medio del buono pasto (circa 6 euro): di conseguenza le lavoratrici percepiscono mediamente 99 euro al mese di buoni pasto e gli uomini 113 euro. Sicuramente incide su questo differenziale l’alta quota di part-time tra le lavoratrici, ma anche, tenendo conto che i buoni pasto sono attribuiti per giorno di presenza effettiva, le giornate di assenza delle donne per congedo parentale, per assistere i familiari disabili, per allattamento, ecc.
Oltre 1,7 milioni di lavoratori consumano i pasti nella mensa aziendale (10% del totale dei dipendenti), ancora una volta con una quota maggiore di uomini. Anche i cellulari sono appannaggio prevalentemente degli uomini, mentre una quota maggiore di lavoratrici beneficia dell’alloggio gratuito oppure a prezzo ridotto. Il quinto benefit per numero di lavoratori che lo ricevono è il rimborso delle spese sanitarie, che interessa 246 mila lavoratori dipendenti (1,5% del totale), in maggioranza donne. Una maggiore quota di lavoratrici beneficia del rimborso delle spese per le bollette dell'abitazione privata (luce, gas, telefono fisso, ecc.) (1,2%, a fronte dello 0,6% tra gli uomini): i 145 beneficiari ricevono un rimborso molto elevato (3,2 mila euro), con valori maggiori tra le donne (3,7 mila €, a fronte di 2,3 mila € tra gli uomini). È preoccupante che solo lo 0,1% dei lavoratori dipendenti (21 mila unità) riceva il rimborso per le spese sostenute per i ser-vizi rivolti all’infanzia (asili nido, scuole materne e centri estivi), con minime differenze di genere. Il valore medio dei benefit ricevuti dai dipendenti nel corso dell’anno relativi ai servizi non contrattuali di welfare aziendale (dal n. 5 al n. 12 della precedente tabella: rimborso delle spese per asili, cure mediche, libri scolastici, circoli sportivi, cellulare, vacanze, prodotti dell’azienda e altri) è pari a 679 euro, con valori più elevati per gli uomini.
La distribuzione per tipologia familiare di cui fanno parte i lavoratori mostra, sorprendentemente, che i valori medi più elevati non sono stati percepiti dalle famiglie con figli, con maggiori bisogni di servizi di conciliazione, ma dalle coppie senza figli (947 €), seguite con una differenza di 250 euro da quelle con figli (695 €), dai single (580 €) − le madri e i padri che svolgono da soli il ruolo di genitori (496 €), che probabilmente sono i più bisognosi in assoluto di aiuti per la cura dei figli − e da altre tipologie familiari (492 €). La differenza di genere più elevata nel valore dei benefit si registra tra le coppie senza figli (oltre 700 euro) e quella minore tra chi fa parte di una coppia con figli (meno di 50 euro). Probabilmente il welfare aziendale penalizza le donne perché è spesso circoscritto ai lavoratori “tipici” e full-time, mentre le donne hanno percorsi lavorativi più discontinui e sono costrette a utilizzare maggiormente il part-time, per conciliare il lavoro con le esigenze di cura dei bambini. Le misure di welfare aziendale non contrattuali sono scarsamente diffuse nel Mezzogiorno (2,2% dei dipendenti) e maggiormente nel Centro (4,2%) e nel Nord (5%) (figura 3.2).
La regione dove si registra la percentuale più alta di lavoratori che beneficiano di queste misure di welfare aziendale è l’Emilia-Romagna (8,9%), seguita dal Lazio (6,2%), dalla Lombardia (5,2%) e dal Friuli-Venezia Giulia (5%), mentre le quote più basse si osservano in Sardegna (0,7%) e in Sicilia (1%). La quota dei dipendenti che percepiscono prestazioni di welfare aziendale e il loro valore cresce con l’aumento del livello d’istruzione, a cui corrisponde normalmente un innalzamento proporzionato della retribuzione: l’incidenza dei percettori sale dall’1,6% dei lavoratori che hanno conseguito al massimo la licenza media al 7,6% dei laureati e il valore medio dei benefit da 560 a 768 euro. Quest’ultimo effetto è determinato dal fatto che normalmente il valore dei benefit è proporzionale a quello delle retribuzioni e alcune volte sostituisce una parte della retribuzione, con benefici sia per l’azienda sia per il dipendente.