Davos, sui mercati l'incubo del 2008. Altro che i dazi di Donald Trump
Staley (Ceo Barclays): i mercati ricordano quelli del 2006. Possibili ripercussioni, soprattutto sugli emergenti, di un improvviso mutamento delle condizioni
Dopo anni di bel tempo e mercati "toro", la tempesta sta per arrivare? Secondo il banchiere americano James ("Jess") Staley, attuale amministratore delegato del gruppo britannico Barclays, in effetti le condizioni finanziarie "iniziano a sembrare un po' quelle del 2006", che hanno poi portato alla crisi economico-finanziaria del 2008, la peggiore degli ultimi 80 anni.
Secondo Staley, infatti, l'andamento della volatilità (attualmente ai minimi storici e dunque destinata presto o tardi a risalire) e della politica monetaria (con tassi a loro volta ai minimi storici o poco sopra di essi e quindi destinati ugualmente a crescere in un futuro più o meno prossimo) possono innescare un periodo "interessante" per i mercati azionari nell'arco dei prossimi due anni. Non un pericolo immediato, dunque, ma sicuramente un campanello d'allarme da non sottovalutare. Scenario molto presente fra i businessmen accorsi al World Economic Forum di Davos, dove i numeri del Fondo Monetario sulla crescita del Pil certificano l'accelerazione in atto della ripresa e danno grande fiducia al gotha della finanza e dell'economia, ma non smorzano i timori circa repentine marce indietro dei mercati finanziari.
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Del resto, nota Staley, "i valori di asset come i mercati azionari sono ai massimi di tutti i tempi, tutte le maggiori industrie al mondo sono cresciute le scorso anno di oltre il 20%, e la volatilità è ai minimi storici" ed è preoccupante che i trader continuino a puntare su una ulteriore riduzione della volatilità stessa.
Ma c'è dell'altro: dato l'elevato ammontare di debito nel mondo, secondo Staley soprattutto sui mercati emergenti, molte economie apparirebbero a rischio nel caso in cui le condizioni finanziarie dovessero cambiare "repentinamente".
Ipotesi quest'ultima che non sembra la più probabile, con una Federal Reserve intenzionata a proseguire sulla strada di graduali leggeri ritocchi dei tassi sul dollaro (ne sono attesi tre anche quest'anno, per un rialzo complessivo dello 0,75%), una Bank of England che dopo aver ritoccato i tassi a novembre per la prima volta dopo 10 anni si è nuovamente messa alla finestra e una Bce che, anche a causa della debolezza del dollaro che ha già spinto l'euro sui massimi dell'ultimo triennio a 1,25 contro il biglietto verde, potrebbe alla fine decidere di prorogare ulteriormente gli acquisti di bond sul mercato o comunque attendere a toccare i tassi sino al primo semestre 2019.
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Il tutto senza contare che la Bank of Japan non parla ancora di rallentare in alcun modo il proprio quantitative easing (né tanto meno di alzare i tassi sullo yen, ugualmente in rialzo sul dollaro). Per la verità non è neppure del tutto chiaro perché i paesi emergenti dovrebbero soffrire un improvviso "shock" finanziario più di quelli sviluppati: come hanno di recente ricordato gli esperti di Columbia Threadneedle, mentre il debito in rapporto al Pil sta lentamente scendendo nei paesi emergenti (sebbene a livello complessivo, ossia includendo le passività di famiglie, aziende e governi, rimanga attorno al 167% del Pil, in base alle stime di Jp Morgan, contro poco più del 126% nel 2011), lo stesso continua a crescere negli Usa.
Staley ha probabilmente voluto mettere le mani avanti per tempo: il problema vero, al momento, è che anni di politiche monetarie ultraespansive hanno finito col creare un gap tra i rendimenti offerti e il rischio sottostante. In altre parole, gli investitori non sono adeguatamente ricompensati per il rischio di insolvenza atteso.
(Segue...)