Economia

I fondi pensione sono a rischio. Colpa dei tassi di interesse a zero

Quattrosoldi/I fondi pensione sono sempre più tentati dai derivati, tra rischi di sopravvivenza e tassi a zero

Il 2015 è stato per gli investitori istituzionali che guardano al lungo periodo un anno complicato, trascorso in buona parte in attesa di un evento, il primo rialzo dei tassi americani dal 2006, che è via via slittato sino a fine anno (mentre un anno fa lo si pronosticava tra la fine della primavera e l’inizio dell’estate). Il rialzo dei tassi se è guardato con timore da chi deve prendere capitali a prestito, è un elemento chiave per chi deve investire, per mandato, in attività a rischio contenuto nell’arco di alcuni decenni come i fondi pensione.

L’assenza di inflazione al momento non esime infatti questi investitori dal cercare di ottenere a tutti i costi rendimenti superiori al tasso di inflazione attesa su base secolare, perché il rischio maggiore è in questo caso non tanto legato alla variazione dei prezzi degli asset nel breve periodo, ma alla possibilità che quando il sottoscrittore avrà maturato il diritto a ricevere la rendita, dopo 30 o più anni di versamenti, il capitale versato risulti in termini reali di poco superiore al suo valore nominale.

Per questo i gestori prima si sono mossi “convenzionalmente”, allungando la durata dei titoli in portafoglio, poi iniziando (è il caso del fondo sovrano norvegese) a non rinnovare i titoli di stato in scadenza o anche a cederli sul mercato per acquistare immobili, alla stregua di un’assicurazione. Ma alcuni non si sono fermati a questo e hanno iniziato (è il caso di fondi pensione come quello canadese dell’Ontario) ad acquistare strumenti a leva, ossia derivati che amplificano il rendimento, ma anche il rischio, rispetto al capitale investito.

Ma oltre che per investimento i fondi pensione stanno iniziando a sfruttare derivati anche per un altro motivo: per assicurarsi contro il crescente rischio di sopravvivenza dei loro iscritti. Secondo l’agenzia Bloomberg fondi per oltre 23 mila miliardi di dollari di patrimonio stanno cercando di trovare modo di assicurarsi contro tale ipotesi, ossia di investire in prodotti che gli garantiscano una rendita extra nel caso il sottoscrittore viva più a lungo di quanto dovrebbe secondo i consueti calcoli attuariali che qualsiasi compagnia assicuratrice utilizza per prezzare le proprie polizze vita.

Il problema è che nel caso dei fondi pensione il rischio di sopravvivenza non si manifesterà per almeno 20-30 anni e questo rende difficile trovare l’altro lato della transazione, ossia fondi hedge o di private equity disposti a correre il rischio. Per questo banche come Goldman Sachs, Deutsche Bank o Jp Morgan Chase stanno “impacchettando” questo tipo di coperture vendute tipicamente dalle assicurazioni, che sempre più spesso hanno già raggiunto o stanno per raggiungere il limite di rischio che sono pronte ad assicurare e desiderano dunque condividere con altri soggetti una parte degli stessi.

E’ il caso di Swiss Re, che di recente ha venduto il primo “longevity bond” sul mercato, facendo così da apripista. Se aumenterà il numero di “longevity bond” e di derivati (opzioni e future, tipicamente, ma non solo) che si potranno realizzare su di essi, i fondi pensione tireranno un primo sospiro di sollievo, ma  potrebbe essere un sospiro di breve durata. Secondo una recente ricerca dell’assicuratore olandese Aegon nel Regno Unito l’attesa di vita cresce tra uno e tre mesi in più ogni anno. Ma ogni anno in più di vita di un , futuro pensionato “costa” a un fondo pensione (o a un’assicurazione) circa il 4% rispetto al capitale versato.

E qui si evidenzia il drammatico motivo per cui sotto la calma apparente dei tassi “a zero” gli investitori a lungo termine iniziano a disperarsi: i titoli di stato a più lunga scadenza sovente superano di poco il 2% lordo annuo, il mattone rende a seconda dei casi tra il 3% e il 5%, le azioni sono soggette a crescente volatilità. Comunque la si guardi l’equazione: “dammi i tuoi soldi oggi, te li restituirò maggiorati domani” è sempre più a rischio.
Il che significa che tra 2 o 3 decenni il numero di pensionati poveri potrebbe esplodere in tutto il mondo. Con quali conseguenze sociali è facile prevedere, visto che quei poveri saranno per alcuni paesi, come l’Italia, quegli stessi giovani che attualmente faticano a trovare un lavoro stabile e a pagarsi contributi consistenti. Cosa che aggiunge danno al danno, incrementando significativamente il rischio che un capitale insufficiente su cui sarà difficile ottenere un ritorno anche solo decente possa esaurirsi prima della vita del sottoscrittore. A quel punto che faremo: lasceremo morire la gente di inedia a ottanta e più anni o il settore pubblico (ma anche quello privato, in qualche misura) se ne dovrà fare carico? Decisamente un dilemma di non facile soluzione che mostra il lato oscuro dei “tassi a zero” per periodi di tempo troppo estesi.

Luca Spoldi