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Economia
Quali investitori per le aziende italiane?

Nei prossimi mesi le aziende italiane si troveranno davanti a delle scelte importanti.  Anni di bassa crescita e di politiche a volte incoerenti hanno già indebolito un tessuto industriale che è e resta la spina dorsale del paese. La pandemia e le azioni prese per tutelare la salute pubblica hanno acuito ancora più la distanza tra aziende che ne stanno uscendo indenni o in alcuni casi ancora più forti di prima e quelle che invece ne escono male o molto male.

Che opzioni hanno i proprietari di queste ultime se non hanno risorse? Essenzialmente, ce ne sono tre: (a) cercare aiuto dallo Stato sotto forma di iniezioni di capitale, con eventualmente quota di minoranza (b) vendere in tutto o in parte ad un terzo con le spalle più grandi, (c) chiudere.

Sulla presenza dello Stato nell'economia ci sono diverse teorie e non è questo il luogo in cui analizzarle, ma la visione che accomuna gran parte del mondo imprenditoriale europeo e non solo italiano è che questa dovrebbe essere limitata ed eventualmente confinata solo a pochi settori di rilevanza strategica. E, aggiungerei, VERAMENTE strategica.  In tutti gli altri casi, questa deve essere una presenza temporanea e limitata solo a consentire all'azienda di uscire da una situazione di difficoltà, con il ritorno al controllo privato prima possibile.  

Altri dicono che invece qualsiasi ingresso da parte dello Stato finisce per prolungare solo - come un temporaneo anestetico - una lenta agonia di un'azienda in difficoltà e che meglio sarebbe invece consentire l'ingresso di capitali privati che siano in grado di rimetterla in carreggiata anche sostituendo la proprietà. "The jury is still out", ma come per tutte le cose, la risposta è "dipende". E direi che dipende anche dall' obiettivo finale che in questa fase di crisi dovrebbe essere salvaguardare il più possibile i posti di lavoro, visto che di alternative in giro per chi lo perde non ce ne saranno molte.

Posto che, anche se volesse, lo Stato non è in grado di entrare nel capitale di tutte le aziende in difficoltà, e che la chiusura, se si vogliono salvaguardare i posti di lavoro, non è un'alternativa tranne nei casi estremi, resta la terza opzione: la vendita.

Tradizionalmente, la vendita di un'azienda ad un terzo è vista spesso in Italia come una soluzione negativa. L'imprenditore che ha creato l'azienda tende a viverla a volte come una sconfitta personale, ma anche dal punto di vista dell'opinione pubblica la vendita, specie se a comprare non è un altro "italiano DOC" sembra una sconfitta per tutto il paese.  In realtà il cambio di azionariato di un'azienda è un fenomeno del tutto normale e anzi in alcuni casi inevitabile se si vuole dare luogo ad aggregazioni più forti in grado di reggere la concorrenza internazionale.

Ma è giusto che il governo intervenga nella scelta dei nuovi azionisti? E quali valutazioni dovrebbero rientrare nella scelta?  

Il Decreto Liquidità dell'aprile 2020 ha ampliato a dismisura i settori nei quali lo Stato può intervenire per sindacare cambi di proprietà di un'azienda italiana liberamente decisi tra le parti.  I settori sono talmente vasti e spesso vagamente definiti da rendere difficile valutare se un'operazione è soggetta o meno allo scrutinio governativo. Questo aggiunge incertezza, in una situazione in cui invece ci sarebbe bisogno di ingresso di capitali nel paese e di un rafforzamento delle aziende attraverso aggregazioni internazionali. Purtroppo, l'Organizzazione Mondiale del Commercio non regola se non in minima parte il flusso di investimenti tra paesi e quindi ogni paese fa un po' quello che vuole. Infatti il trend recente a "restringere le maglie" non è solo italiano ma si riscontra anche in altri paesi europei, mentre paradossalmente gran parte dell'Asia, dalla Cina all'Indonesia al Vietnam, sta allargando le maglie.

Italia e Spagna, però, che hanno adottato le norme più restrittive, si trovavano già prima in una situazione non ideale dal punto di vista dell'attrattività per gli investitori esteri.  C'è quindi il rischio che queste nuove norme se applicate in maniera poco chiara rendano ancor meno attraenti questi paesi, con un danno alle casse dello Stato che si troverà costretto ad intervenire in un modo o nell'altro per evitare che la disoccupazione raggiunga livelli intollerabili.  

Eppure esiste una via d'uscita. In primis bisogna ridurre il perimetro di cosa sia veramente strategico: la proprietà di tutti i terminal di un porto o di un'azienda che gestisce le reti ferroviarie lo è senz'altro; un'azienda di moda o di dolciumi o di macchinari di precisione o di apparati per le telecomunicazioni non lo sono. In questi casi, l'analisi antitrust per evitare aggregazioni lesive della concorrenza dovrebbe bastare.  C'è poi il secondo aspetto che riguarda la nazionalità del nuovo proprietario.  Non è un caso che le nuove regole italiane disciplinino in maniera parzialmente diversa (anche se non del tutto) i cambi di azionariato se i nuovi soci sono aziende europee oppure extra UE.  

Su questo, dobbiamo stare molto attenti. La nazionalità dell'investitore a mio avviso dovrebbe tenere conto solo di due parametri: (a) se ci sono regole UE che ci impediscono di discriminare, visto che siamo nel mercato unico (b) per gli extra UE, se esiste sostanziale reciprocità con il paese di provenienza, cioè se ad una azienda italiana sarebbe consentita una simile operazione nell'altro paese.  Tutte le altre valutazioni dovrebbero passare in secondo piano e concentrarsi solo su un aspetto che poi è quello che conta: se cioè l'investitore ha un piano strategico in grado di assicurare la continuazione dell'attività aziendale con i massimi livelli di occupazione possibili. In altre parole, il passaporto dell'investitore strategico cui interessa "restare" per lungo tempo dovrebbe essere l'ultimo aspetto da considerare. Anche perché a volte può essere l'unico veramente interessato.  

*socio dello studio Baker McKenzie e fondatore del think tank Easternational

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