Economia
Rdc, Saraceno: "Non verrà abolito. Basta un imbroglione per generalizzare"
Intervista di Affari a Chiara Saraceno, la prof a capo del comitato di valutazione della misura, che sui navigator sostiene: "Sono da integrare nei Cpi"
Il Reddito di cittadinanza continua a surriscaldare il clima politico. Il leader di Italia viva Matteo Renzi ha annunciato addirittura un referendum per abrogare la misura. Non più tardi di ieri invece la numero uno di FdI, Giorgia Meloni, ha stroncato il sussidio definendolo “metadone di Stato”, portando persino Matteo Salvini, che era al Governo quando la legge è stata approvata, ad ammettere l’errore. Il tema è talmente caldo che fioccano persino nuove proposte: per il ministro leghista Giancarlo Giorgetti, infatti, il Rdc va trasformato in “lavoro di cittadinanza”. Nel frattempo, però, l’attività del comitato per la valutazione del Reddito di cittadinanza presieduto dalla professoressa Chiara Saraceno va avanti. La sociologa esperta di welfare e già docente all’università di Torino, intervistata da Affaritaliani.it, alla domanda se il chiacchiericcio intorno al Rdc disturbi l’attività del comitato, risponde subito di no: “Casomai ci sottopone alla pressione di uscire abbastanza presto con delle proposte”. Saraceno, però, ammette pure: “Non c’è dubbio, tuttavia, che questo dibattito inquini. Si è radicata ormai l’idea per cui il Reddito è percepito o da imbroglioni o da nullafacenti. L’immagine del percettore che sta sul divano, per esempio, è micidiale”. Ecco perché la professoressa non usa mezzi termini: “Non mi piace che anche esponenti politici utilizzino questo tipo di linguaggio. E’ un dibattito che trovo poco educativo, viaggia su stereotipi selvaggi”.
In che senso?
E’ semplice: basta un imbroglione e si finisce per generalizzare. Nessuno, però, si è scandalizzato così tanto per gli autonomi che durante il lockdown hanno preso mille euro anche senza aver perso reddito o per le imprese che hanno ricorso alla cassa integrazione senza averne bisogno.
Passiamo al lavoro del comitato. Che dead line vi siete dati?
Di lavoro da fare ce n’è tanto. Ci siamo dati come scadenza fine settembre, in tempo insomma per far arrivare le nostre proposte in vista della legge di Bilancio.
C’è in programma prossimamente qualche incontro al ministero del Lavoro?
Il 13 settembre ci incontriamo. Sarà la prima riunione in presenza al Ministero e porteremo le bozze dei capitoli su cui stiamo lavorando.
La premessa è comunque che il Rdc non verrà abolito.
Non bisogna fare l’errore che hanno fatto i Cinque stelle e il Governo Conte 1 e cioè quello di buttare a mare, invece di migliorarlo, uno strumento come il Rei, che era appena partito. Anche perché è necessario pensare pure a chi - gli amministratori locali, per esempio - deve applicare le regole e non può vedersele cambiare ogni sei mesi o ogni anno. Comunque, la consapevolezza che qualcosa vada cambiata è ormai abbastanza diffusa. Ecco perché mi sono chiesta che bisogno c’era di un referendum.
Si riferisce all’iniziativa di Renzi?
Sì. Senza correre il rischio di essere ascritta ai Cinque stelle, soprattutto dopo aver sin dall’inizio scritto come la pensavo sui difetti del Rdc. Tra l’altro, lo stesso M5s ora è d’accordo che qualcosa su questa misura vada fatta. Bisogna comunque essere chiari.
Si spieghi.
Dobbiamo distinguere tra ciò che non ha funzionato perché era sbagliato qualche cosa nel disegno della misura e ciò che non ha funzionato perché siamo in un periodo complicato. Non è corretto, infatti, dire che è stato un flop l’accompagnamento al lavoro in questi ultimi due anni in cui ha sofferto pure chi aveva un impiego. Anzi, occorre riconoscere che per fortuna un sostegno c’era e che almeno molte famiglie sono rimaste protette. Anche se si è dovuto aggiungere il Rem perché i requisiti del Rdc sono troppo rigidi.
Entriamo nel merito del vostro lavoro: oltre all’obiettivo di allargare la platea a famiglie con più figli, è oggetto di studio pure la questione dei divari territoriali e, quindi, del differente costo della vita. E’ così?
Questa è una questione più complicata. Basti pensare che l’Istat quando misura la povertà assoluta dettaglia in modo molto fine la variabilità territoriale. Il costo della vita, inoltre, non varia solo tra Nord e Sud, tra Milano e Napoli, ma anche tra Milano e Saronno. E poi c’è un’altra considerazione da fare.
Quale?
Nelle città del Mezzogiorno il costo della vita è più basso, ma i beni pubblici sono più carenti. Non ci sono asili nido e scuole a tempo pieno, per curarsi molti sono costretti ad una migrazione sanitaria. Tutte cose che hanno dei costi. Se a questo aggiungiamo un mercato del lavoro con meno opportunità, il quadro tra nord e sud, insomma, si rovescia.
Come se ne esce?
Io ho una mia personale idea in proposito: integrare il sostegno minimo a livello nazionale (inteso come Lep) con integrazioni a livello locale, oggi non consentite dalla legge. Anche perché le istituzioni sul territorio sono quelle che hanno reale contezza dei bisogni e costi dei cittadini.
Il Rdc sarà sganciato dalle politiche attive oppure no?
Uno degli errori iniziali, soprattutto di narrazione, è stato proporre il Rdc tout court come una politica attiva del lavoro, e non come una politica di inclusione attiva, che comprende un insieme di interventi. Ci sono beneficiari che già lavorano, ma che non guadagnano a sufficienza e/o hanno occupazioni temporanee; altri che non hanno competenze tali da renderli appetibili sul mercato ed hanno bisogno di migliorare le proprie competenze. Altri ancora che per età, salute, condizioni familiari, difficilmente possono collocarsi sul mercato del lavoro ma possono comunque essere coinvolti in attività utili a loro e alla collettività. Va benissimo, quindi, agganciare il Rdc alle politiche attive per chi può essere o diventare occupabile, ma l’inclusione non si esaurisce in questo. Inoltre è fondamentale una campagna di formazione. Ma per farla occorre un grande spirito di collaborazione con il ministero dell’Istruzione, gli istituti di formazione e le imprese a livello locale.
Non abbiamo ancora parlato dei navigator. Che fine faranno?
Vanno integrati nei centri per l’impiego, che a loro volta dovrebbero essere più attrezzati. Facile dire che i navigator hanno fallito. Bisogna considerare che ogni domanda di lavoro intercettata alla fine deve passare per il centro dell’impiego. Ecco perché serve integrazione. In generale, occorre un personale che non si limiti a incrociare domanda e offerta che casualmente finiscono sulla sua scrivania. C’è bisogno di persone capaci di fare consulenza e anche di fare scouting. E’ tutto il sistema che deve funzionare, altrimenti le imprese si scoraggiano e poi va a finire che il lavoratore lo cercano in altri modi.
C’è qualche altro aspetto della misura su cui vi state concentrando?
Oltre alla modifica dei criteri d’accesso, bisogna occuparsi anche di chi pur avendo i requisiti non fa la domanda di sostegno. E’ un tema importante. Così come lo è ammorbidire le norme, al momento rigidissime, relative alle condizioni in base alle quali si può rifiutare un lavoro. Ma bisogna pure riflettere sulla possibile integrazione tra Rdc e salario, pur facendo attenzione al rischio che i datori di lavoro non speculino offrendo buste paga troppo basse in virtù di un eventuale cumulo.