Economia

Scontro Germania-Italia sulle banche. Draghi tenta di mediare


La partita è solo apparentemente tecnica, in realtà di grande sostanza pratica: entro fine febbraio la Banca per i regolamenti internazionali (Bri) dovrebbe pubblicare le linee guida di “Basilea IV” e visti i problemi già sollevati da Basilea III e la fase a dir poco non esaltante del settore creditizio europeo, rimasto indietro rispetto a quello americano nel processo di trasformazione avviatosi dopo la crisi del 2008, l’attesa è grande. Si vuole infatti vedere se tra le nuove linee guida vi saranno indicazioni sul trattamento dei titoli di stato nei bilanci delle banche.

Un tema che riguarda da vicino le banche italiane, che in titoli di stato nazionali secondo le più recenti analisi del Centro Studi di Confindustria detenevano oltre 400 miliardi di euro, pari al 10,2% dell’attivo a fine settembre 2015, ossia il doppio di quel 5,2% registrato a fine 2011. Allargando lo sguardo a tutti i titoli di stato emessi da paesi membri di Eurolandia, in Italia la quota e` salita all’11,5% (da 6,2% di fine 2011), in Spagna al 10,2% (dal 5,7%).

Non potrebbe essere altrimenti per almeno due motivi: primo, nella fase peggiore della crisi banco-sovrana, la domanda bancaria di titoli sovrani da parte delle banche è stata essenziale per ciascun paese, in particolare per quelli come Italia e Spagna a rischio “bailout”; secondo, perché è offrendo titoli di stato che le banche ottengono dalla Bce liquidità a bassissimo costo. Guarda caso le banche italiane sono state tra quelle maggiormente beneficiate dalle ultime operazioni di rifinanziamento attuate dall’istituto centrale europeo: a fine gennaio il sistema bancario italiano registrava finanziamenti in essere presso la Bce per 150,978 miliardi di euro, peraltro in calo rispetto ai 158,276 miliardi di fine 2015.

Perché le banche italiane sono legate così a doppio filo a titoli di stato e Bce? Perché, oltre a “dare una mano” al Tesoro, sfruttando il differenziale di tassi gli istituti tricolori riescono a recuperare un minimo di redditività senza correre sostanzialmente rischi, cosa che non succede prestando denaro a imprese e famiglie in un momento (che purtroppo dura tra alti e bassi da un quindicennio) in cui l’economia non tira affatto o tira poco. Se ora passasse l’idea di assegnare un grado di rischio anche ai titoli di stato, le soluzioni potrebbero essere solo due: o le banche creeranno nuovi fondi rischi, dovendo raccogliere mezzi freschi per farlo, o venderanno titoli di stato.

Nel primo caso dovranno fare ricorso a cessioni, ad aumenti o a nuove emissioni obbligazionarie, ma coi mercati ballerini di questo inizio d’anno cessioni e aumenti sono difficili da portare a termini, mentre dopo l’entrata in vigore delle norme sui “bail-in” il collocamento di bond è divenuto meno agevole, essendosi quasi del tutto prosciugato il mercato dei bond subordinati. Sarebbe meglio dunque non voler essere più realisti del re e rimandare questa serie di norme a un momento meno difficile di quello attuale.

Purtroppo le autorità tedesche, a partire dal ministro delle Finanze Wolfgang Schaeuble e dal presidente della Bundesbank, Jens Weidmann, non sembrano affatto interessati a rallentare, anzi. Gli stessi Schaeuble e Weidmann non paiono peraltro così solerti nel chiedere che la maggiore trasparenze e rigore nella valutazione del rischio riguardi anche strumenti derivati come quelli emessi, per svariati miliardi, da Deutsche Bank.

Sarà che ciascuno conosce i polli suoi, ma Schaeuble ha dichiarato pochi giorni fa di essere “tranquillo” sulla solidità di Deutsche Bank e sulla sua capacità di servire regolarmente il debito (ossia pagare interessi e rimborsare a scadenza bond e derivati emessi), facendo di colpo cessare le pesanti vendite viste in borsa sul titolo. Peccato che oltre a problemi di stile (o se si vuole di onestà intellettuale) la difesa degli interessi nazionali, quanto mai evidente in questo caso, venga anteposta al via libera al terzo pilastro dell’Unione bancaria, ossia la nascita di un fondo di garanzia comune dell’eurozona sui depositi bancari. Garanzia che in questo caso è l’Italia che vorrebbe arrivassero alla svelta.

Mario Draghi, preoccupato, sembra tentare di fare da mediatore tra le due posizioni e ha già detto che la riduzione del rischio (ossia il calo del peso dei titoli pubblici nei bilanci delle banche) deve andare di pari passo alla condivisione del rischio (la nascita di un fondo di garanzia comune sui depositi bancari in Eurolandia). Dall’esito della mediazione dipenderà se le banche italiane potranno proseguire in un graduale processo di risanamento o se saranno costrette a cercare di forzare i tempi, con tutti i rischi che ne conseguono sia per i titoli in borsa, sia per l’erogazione del credito all’economia reale.

Luca Spoldi